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indireinforma

25 Novembre 2014

Scuola, nuovi spazi per apprendere in modo nuovo

Ne abbiamo parlato con Julia Atkin, consulente per l'istruzione del Governo australiano

di Giuseppina Cannella, Rudi Bartolini

«Humans can learn in a variety of ways. We can learn like parrots, playing back like a tape recorder what we have heard. Humans can learn like robots – ‘monkey see – monkey do’ type learning carrying out actions without thought, or we can assume attitudes and beliefs without questioning them. Human learning has the capacity to be far richer than this. We can learn in a way that transforms; in a way that endows our experience with meaning; in a way that empowers us to adapt, to perform and to create» (Atkin J., 2000).

Queste parole sottolineano la complessità dell’apprendimento umano e una tensione verso il superamento di modelli formativi di carattere trasmissivo, sostanzialmente passivi, che sempre più mostrano la loro inadeguatezza di fronte alle sfide della società contemporanea. Modelli, tuttavia, ancora alla base della maggior parte delle istituzioni educative, dalla didattica all’organizzazione, fino agli spazi e agli arredi.

Julia AtkinLa citazione è di Julia Atkin, consulente per l’istruzione del Governo australiano. La questione è infatti al centro del dibattito internazionale: come innovare i modelli didattici? Come ripensare spazi e tempi dell’apprendimento?

La studiosa australiana ha elaborato diciotto princìpi (Atkin J., 1997) necessari per un apprendimento efficace, molti di questi non riguardano aspetti legati alle discipline, bensì l’attenzione alla persona nella sua interezza. In particolare, pone al primo posto la collaborazione e dà grande importanza all’ambiente, inteso come spazio che offre allo studente la possibilità di esprimersi, di svolgere esperienze e di sentirsi a suo agio.

Abbiamo approfittato della sua presenza a Firenze per porle alcune domande sugli spazi dell’apprendimento e trovare così spunti da sviluppare nella ricerca Indire.


Professoressa Atkin, quali sono le politiche australiane sulla costruzione di nuove scuole, sul ripensamento delle loro architetture in chiave pedagogica?

Dipende dalla stato a cui ci riferiamo, in Australia abbiamo otto stati e ognuno ha politiche diverse. Prendiamo in considerazione lo stato di Vittoria, che è probabilmente il più avanzato. Quando il dipartimento dell’istruzione decide di costruire una nuova scuola, viene avviato un piano operativo di progettazione che include consulenti dell’educazione, architetti e personale della scuola. In questo modo si forma un gruppo di progettazione partecipata. Nello sviluppo del progetto viene tenuto conto del budget fissato, ma anche, dopo aver ascoltato i soggetti coinvolti (insegnanti, famiglie, ecc.), delle esigenze pedagogiche. Il gruppo lavora a lungo su questi aspetti prima che la scuola venga effettivamente realizzata.
Le scuole nello stato di Vittoria sono autonome. Non lo sono molto invece nello stato del New South Wales, ma si stanno indirizzando verso l’autonomia. In questo stato, fino a oggi gli architetti dei dipartimento dell’istruzione hanno costruito secondo delle indicazioni valide per tutte le scuole, pertanto queste sono assai simili fra loro. Adesso le cose stanno cambiando e anche la progettazione scolastica è migliorata e si sta diversificando a seconda delle diverse esigenze pedagogiche e del territorio.

 

Con riferimento ai nuovi ambienti di apprendimento, quali sono le principali sfide che l’Australia sta affrontando?

Ci sono molte sfide ancora da affrontare, ad esempio, un po’ come in Italia, ci sono diversi edifici storici che non sono stati costruiti per ospitare una scuola. Anche se non così antichi come quelli del vostro Paese! Ma forse la sfida maggiore è far comprendere agli insegnanti le motivazioni per cui vogliamo scuole diverse, più adeguate agli obiettivi didattici e pedagogici di oggi.

 

Secondo la sua esperienza, ci sono dei legami tra l’impatto dei nuovi ambienti di apprendimento e i risultati ottenuti dagli studenti? 

Se si guardano gli edifici, è difficile trovare delle evidenze che mettano in collegamento spazio e apprendimento con i risultati degli studenti. Ma se si guarda alle esperienze migliori che si registrano in Australia e Nuova Zelanda, vediamo che la scuola in generale ha una chiara vision rispetto ai concetti di apprendimento e di curricolo. In questi paesi si sta facendo un buon lavoro. Non è lo spazio in sé che bisogna considerare, ma tutti i fattori messi insieme: lo spazio, il lavoro in gruppo tra insegnanti, le nuove pedagogie per l’apprendimento degli studenti e così via.

 

Quali sono gli indicatori che possono aiutare a “misurare” il cambiamento? 

Gli indicatori che consentono di rilevare le evidenze relative all’apprendimento non riguardano solo lo spazio, ma anche un approccio pedagogico adeguato da parte degli insegnanti, la soddisfazione di questi ultimi riguardo all’ambiente di lavoro, il clima nella scuola, la percezione che gli studenti hanno del loro stare a scuola. Infine, vorrei sottolineare che non si tratta solo di rilevare gli apprendimenti degli studenti, piuttosto è importante che gli studenti imparino a gestire il proprio apprendimento e ad acquisire le competenze per il XXI secolo.

 

Quando parliamo di nuovi ambienti per nuovi apprendimenti, che tipo di formazione dovremmo fornire agli insegnanti? E di quali altre figure professionali avremmo bisogno per affrontare i cambiamenti in atto?

Per quanto riguarda la formazione professionale, a livello universitario c’è un grande lavoro in corso per fornire offerte formative di livello. A scuola invece la formazione indirizzata agli insegnanti prevede prevalentemente attività di peer-tutoring o di apprendimento tra pari e per gruppi, all’interno dello stesso istituto, su attività scolastiche. Un apprendimento costante. Si tratta quindi di una formazione “nel contesto” e non di una formazione basata su corsi che prevedono un “uscire dal contesto” per poi tornare con informazioni che non sempre sono utili per il proprio vissuto professionale. Altri soggetti che possono essere formati sono i genitori. Questo può avvenire anche attraverso la realizzazione di momenti dimostrativi, durante i quali gli studenti illustrano loro i progetti realizzati. In queste occasioni gli insegnanti fungono da tutor.

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Molti dei concetti qui espressi da Julia Atkin sono al centro delle riflessioni portate avanti da Indire negli ultimi anni. In particolare, i progetti di ricerca Quando lo spazio insegna e Avanguardie educative stanno evidenziando come non sia possibile innovare veramente il “fare scuola” senza ripensarne gli spazi e i tempi. Le stesse tecnologie digitali, portatrici di potenzialità inedite per sviluppare nuove forme di insegnamento e apprendimento, risultano “disinnescate” se calate e imbrigliate in contesti pensati per una didattica trasmissiva.

D’altro canto, il mondo non aspetta ed è ormai evidente il forte scollamento tra le pratiche sociali e comunicative delle giovani generazioni e quanto proposto dalla scuola, basta osservare i ragazzi nella loro quotidianità: il modo in cui comunicano, in cui stringono rapporti, in cui conoscono il mondo. Le tecnologie digitali favoriscono l’accesso all’informazione, lo sviluppo di modalità espressive originali e di modelli di apprendimento basati sulla collaborazione che difficilmente trovano le condizioni ambientali per essere applicati in classe. Questa “disconnessione” della scuola assume poi toni drammatici nella distanza dal mondo del lavoro.

La stessa Commissione europea, con l’introduzione del concetto di competenze chiave, «quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personali, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione» richiama una dimensione attiva dell’apprendimento. Una scuola che si basa sulla promozione delle competenze non può continuare a proporre modelli di setting standardizzati, ma dovrebbe essere simile a un laboratorio polifunzionale dove gli studenti possano collaborare, esercitandosi in piccoli o grandi gruppi.

La scuola al tempo della società della conoscenza dovrebbe pertanto promuove la diversificazione, al posto dell’omologazione, la libertà di azione e il coinvolgimento attivo dello studente. Inoltre, non può essere considerata più solo come luogo di studio, chiuso verso l’esterno, ma deve aprirsi per diventare luogo da abitare, da frequentare, da vivere, come sottolineano importanti esperienze europee (per approfondire rimandiamo ai casi osservati dal progetto Quando lo spazio insegna).

Innovare la scuole e migliorare gli apprendimenti dei ragazzi sono processi complessi che però non devono scoraggiare tentativi di sistematizzazione e sperimentazione. Così, attraverso il Movimento delle Avanguardie educative, Indire ha individuato 7 “orizzonti” verso cui tendere e sta portando avanti numerose sperimentazioni su tutto il territorio nazionale con le scuole aderenti*, dalle quali sono scaturite 12 idee per una scuola nuova: nella didattica, negli spazi e nei tempi.

 

*Per scoprire come entrare a far parte del Movimento, rimandiamo al contributo “Perché aderire al Movimento delle Avanguardie educative”.

 


Bibliografia e Sitografia
Atkin J. (1997), Principles of Effective Learninghttp://www.learning-by-design.com/papers/princ_of_effective_learn.pdf
Biondi G. (2007), La scuola dopo le nuove tecnologie, Apogeo, Milano
Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 – http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32006H0962&from=IT
Movimento delle Avanguardie educative – http://avanguardieeducative.indire.it
Learning by design – http://www.learning-by-design.com/
Quando lo spazio insegna – http://www.indire.it/quandolospazioinsegna
Foto Ørestad Gymnasium (credit G. Moscato)