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MEDIA EDUCATION

La scuola senza zaino

L'opinione di Marco Orsi e Giuliana Petrini su cambiamento organizzativo e innovazione pedagogica

di Marco Orsi
09 Aprile 2004

Non solo una metafora

Per leggere e comprendere un’organizzazione occorre guardare attentamente alla sua cultura la quale si struttura in “assunti impliciti che effettivamente determinano il comportamento, che indicano ai componenti del gruppo come la realtà vada percepita, pensata e sentita” [Cfr. E. H. Schein, Cultura d'azienda e leadership, Guerini e Associati, Milano, 1990, p. 43].
Vi sono diversi modi per avviare una ricerca sugliassunti impliciti di base”.  Uno di questi – sostiene Schein – è quello di guardare agli artefatti materiali e immateriali.  Ciò vuol dire che sono significativi tanto i comportamenti o i linguaggi (artefatti immateriali), quanto gli oggetti d’uso quotidiano (artefatti materiali). Questi come quelli rimandano – se ben interpretati – ad uno sfondo comune, ad una scelta fondamentale, ad “assunti di base”, appunto, che al di là di tutto condizionano e definiscono l’identità organizzativa.

Tra gli artefatti particolarmente adatti a spiegare l’organizzazione scolastica spicca – a nostro avviso - per la sua capacità di rinviare agli assunti di base, un oggetto particolare, così dato per scontato da apparire insignificante: lo zaino in uso tra gli studenti di ogni età.
L’analisi che condurremo vuole partire da lì, dallo zaino, sfidando l’apparente banalità dello strumento, per ricavarne un messaggio a nostro avviso fortemente indicativo. In questo caso il mezzo, cioè lo strumento, diviene, come sostiene Mc Luhan, il messaggio: un messaggio a volte in grado di gettare luce su visioni, valori e identità [Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano 1967].

Lo zaino perciò è più che una semplice metafora: fornisce informazioni sull’azione organizzativa della scuola, sulle caratteristiche della sua offerta formativa, consentendo quindi di fare ipotesi credibili circa il modello pedagogico prescelto.

 
Lo zaino rimanda ad un "non-luogo"

Lo zaino è uno strumento inventato non per la scuola: il vocabolario Devoto-Oli ne dà questa definizione: “Sacco di tela robusta rinforzato e munito di cinghie per essere portato a spalla, sia da soldati che da alpinisti, escursionisti, gitanti, ecc.” [G. Devoto, G. C. Oli, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1967 – 1987, p. 3490].

Lo zaino, dunque, rimanda all’inospitalità del luogo, un luogo non umanizzato, impervio, ostile. Anche nel caso del soldato, la funzione dello zaino è legata al contesto della sopravvivenza e dell’inospitalità del luogo, con l’aggravante che a differenza dell'alpinista per lui non sussiste la ricompensa di poter contemplare l’ambiente naturale. L’inospitalità si fa perciò totale. Siamo di fronte a un completo non-luogo, uno spazio minaccioso che incute paura. E’ così che lo zaino assume ancor di più una connotazione di “sacco di tela” ove è riposto quel minimo indispensabile che consente la sopravvivenza.
Tuttavia lo zaino non è solo un mero valore d’uso, uno strumento neutro: esso fa riferimento ad un significato umanizzate, permette alla persona – soldato - di continuare, pur in condizione di emergenza, la sua vita fatta di bisogni materiali, ma anche spirituali, identitari diremmo. Così nello zaino trova posto, oltre al cibo, la coperta per la notte, quanto occorre per spedire una lettera, il libro a cui si tiene di più.

Non è allora che un’organizzazione come la scuola che si avvale di uno strumento come lo zaino, dica di un ambiente fondamentalmente inospitale, inabitabile, non umanizzato?

Si pensi al tipo di architettura che generalmente definisce le scuole: spesso è anonima, asettica, priva di elementi di accoglienza e cura. Le aule sono spazi standardizzati che ospitano mobilio costituito in prevalenza da cattedra, banchi, armadi, un mobilio uniforme, privo di colore e di calore, non personalizzato, intercambiabile. Un’aula vale l’altra. Durante il corso dell’anno è indifferente stare in quella o in quell’altra aula, cosicché non di rado avvengono cambiamenti senza che se ne percepisca la rilevanza. L’aula non suscita il senso dell’appartenenza né negli studenti, né nei docenti. Non è uno spazio identitario.

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario, né relazionale né storico definirà un non luogo” [M. Augè, Nonluoghi. Introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, p. 73. Si veda anche J. Tomlinson, Sentirsi a casa nel mondo, Feltrinelli, Milano, 1999].

Non–luogo è una stazione di servizio, un'autostrada, un aeroporto. Non-luogo può essere anche una scuola. Il non-luogo scolastico è caratterizzato dal transito. L’aspetto di dimora, il senso del sentirsi a casa è espunto: nell’aula scolastica tutti cercano di stare il meno possibile, tutti si sentono in transito. Gli insegnanti transitano da una classe all’altra durante i cambi di orari, per poi uscire e dedicarsi ad altre attività (per alcuni con sollievo), gli alunni - a loro volta - non vedono l’ora che “suoni” la campanella. 
Lo zaino, allora, diventa uno strumento necessario, è il mezzo che consente di contenere gli oggetti del lavoro scolastico che altrimenti non troverebbero negli spazi degli ambienti una loro collocazione. Allo stesso tempo lo zaino è anche il mezzo che aiuta lo studente a tutelare la propria identità in uno spazio anonimo, in quanto oggetto personale frutto di una scelta, di un’individualità e di una originalità. E' portatore di un significato che si fa tentativo di riequilibrio rispetto ad un contesto asettico, standardizzato, non significante. Lo zaino come àncora di salvezza, come modo per percepirsi a casa nonostante l’inospitalità del luogo. [Sul tema dell’ospitalità è particolarmente suggestivo, anche in dimensione educativa, il testo di M. Brunini, Ospitare la vita, EDB, Bologna, 2004].


Lo spazio della “cura”

La missione originaria della scuola è fondamentalmente quella dell’aver cura, del sostentamento e dell’affiancamento: è la risposta concreta che la società offre per incontrare e sorreggere la debolezza esistenziale del soggetto giovane. Un aiuto per dotarlo di risorse cognitive ed emotive al fine di poter prendere in mano la propria vita, iniziare a costruire il proprio progetto biografico in relazione al mondo circostante.
Imparare ad aver cura di sé è imparare la passione per la ricerca della propria forma migliore. La ragione d’essere dell’educazione s’inscrive proprio qui:  coltivare nel soggetto educativo la passione per la cura di sé, accompagnarlo nel processo di costruzione di quegli strumenti cognitivi ed emotivi necessari a tracciare con autonomia e con passione il cammino dell’esistenza…” [L. Mortari, Per una pedagogia della cura, in “Pedagogia e Vita”, 2003, 3, p. 98].

La cura, tuttavia, non si manifesta solo con le parole, non è evidente solo per le dichiarazioni di principio che caratterizzano i documenti scolastici, i piani dell’offerta formativa, i vari progetti che si occupano di accoglienza, di integrazione, di interculturalità, di relazionalità, e così via. La scuola è permeata all’eccesso di queste attenzioni dichiarate e cristallizzate sulla carta dei documenti. 
La cura - l’aver cura - è un messaggio che deve farsi tangibile, concreto, materiale. Un messaggio che si mostra e si dimostra negli spazi che vengono allestiti e che riguarda le strutture architettoniche, gli arredi, l’illuminazione, i materiali a disposizione, l’ordine e il modo di disporre gli oggetti e gli strumenti e che, infine, investe quei comportamenti che interpretano quotidianamente tali spazi e quegli oggetti.
Dall’ambiente scolastico stesso dovrebbe emergere, con chiarezza, fin dai dettagli che ne definiscono gli artefatti, quell’aver cura come motivo forte e di fondo, che si manifesta poi a livello sovrastante nella capacità di progettare l’attività scolastica, il curricolo, in termini di obiettivi (conoscenza, competenze, abilità), mezzi e strumenti, verifiche e valutazioni in una prospettiva anche personalizzabile [si veda lo schema di decreto relativamente alle “norme generali realtive alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, ai sensi della legge 28 marzo 2003, n. 53”. Si vedano inoltre le “Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati nella Scuola Primaria”].
La cura non può che avere una dimensione interpersonale e una dimensione esteriore: la relazione educatore/educando connotata nel senso della cura, ma anche l’ambiente esterno che denota materialmente la cura e la responsabilità derivante dalla relazione medesima [sul tema della cura sono celebri le pagine di M. Heiddegger; M. Heiddegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976. Per le relazioni fra cura e responsabilità: H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino, 1990].
La cura genitoriale, del resto, non si esplica solo negli sguardi, negli abbracci, nei sorrisi, ma anche nello spazio accogliente di una culla, nei colori di una stanza dedicata, nell’attenzione per coperte e vestiti, in cibi e giocattoli che rispondano a bisogni materiali e spirituali. 
Insomma uno spazio e un ambiente che esprimono ordine, calore e colore, armonia e sollecitudine. Il dentro e il fuori si coniugano in un unico messaggio.

 

La scuola come luogo

Ecco che torniamo alla questione dello spazio scolastico e del suo proclamarsi diverso, distante, spesso radicalmente alternativo rispetto ai tentativi di cura e di attenzione che pur con impegno non pochi insegnanti cercano di esercitare. Nella scuola l’aver cura non può essere l’aver cura di un singolo educatore anche se ben intenzionato, ma l’aver cura di un’intera organizzazione, un’organizzazione che si fa comunità non solo di ricerca, ma anche di accoglienza, quindi un luogo che sa ospitare, rendersi caldo, prossimo, a misura [su questi aspetti si veda la riflessione, che ha portato anche a realizzazioni pratiche, sulla scuola come comunità di T.J. Sergiovanni; cfr. T.J.  Sergiovanni, Costruire comunità nelle scuole, LAS, Roma 2000; id., The Lifeworld of Leadership. Creatinig Culture, Community, and Personal Meaning in Our Schools, Jossey – Bass Publishers, S. Francisco, 2000 e il correlato L'ambiente della scuola].


Agli inizi del Novecento, in modo lapidario, John Dewey affermava che “quando il maestro ha fornito le condizioni che stimolano il pensiero e ha preso un atteggiamento di simpatia verso le attività dello scolaro entrando con lui in un’esperienza comune e congiunta, è stato fatto tutto quanto può fare un’altra persona per indurre ad imparare” [J. Dewey, Democrazia e Educazione, La Nuova Italia, Firenze, 2000, 1916, p. 206].


Fornire le condizioni significa, soprattutto, facilitare il verificarsi di reali situazioni di apprendimento (in grado di generare problemi per l’indagine riflessiva) agendo attraverso l’ambiente, vale a dire organizzandolo, in modo intenzionale, per predisporre materiali funzionali ad esperienze significative. La comunità di apprendimento fa trasparire quel clima generato dall’essere della scuola un luogo, un luogo di “cura” che trasmette costantemente e a livello percettivo–estetico la dimensione dell’ investigare, dello scoprire, dell’indagare che è tipico di una comunità di ricerca. 

Del resto già la pedagogia classica aveva individuato la necessità di rendere tangibile questo messaggio dell’aver cura in quanto ambiente che facilita e accompagna la crescita e la formazione, nella convinzione che il bambino e l’allievo imparassero ad esercitare a loro volta cura e responsabilità.
Nel pensiero di Celestin Freinet l’evidenza di un rapporto di causa/effetto tra “la natura e il tipo di lavoro scolastico” e la struttura dei locali emerge tanto chiaramente che egli propone una collaborazione tra architetti e pedagogisti per la realizzazione di nuove scuole. Luoghi in cui l’arredamento risponda a necessità scolastiche di attività da svolgere in piedi, oltre che seduti, attività non solo dello scrivere e ascoltare, attività che prevedono spostamento, collaborazione tra alunni e maestro. La crescita personale, nell’impostazione freinetiana, rappresenta un fatto interiore che può essere facilitato, sostenuto, accelerato  da un ambiente stimolante a misura di alunno [Cfr. C. Freinet, La scuola del popolo, Editori Riuniti, Roma, 1973 (1969)].
E’ necessaria una scuola che si adatti alla mentalità dei singoli, una scuola “che sia ben rispondente alle forme delle intelligenze come un vestito o una calzatura a quelle del corpo o del piede”, scriveva Claparéde nel 1920 [E. Claparède, La scuola su misura, La Nuova Italia, Firenze, 1952 (1920)]. Tale scuola  si realizza anche  nella costruzione di un ambiente che favorisca la messa in opera delle attitudini individuali: “creiamo il più rapidamente possibile questo ambiente favorevole, che permetterà ad ognuno di dare il massimo e di espandere la sua personalità. E non dimentichiamo che lavorando per l’individuo, svolgendo le sue capacità, la sua originalità, mettendo in valore le sue forze e le sue ricchezze, lavoriamo anche, forse soprattutto, per la società” [Cfr. Supra, p.55.].
La rilevanza dell’ambiente è chiara nelle riflessioni pedagogiche di Maria Montessori la quale  parte dal presupposto che i bambini siano in possesso di una naturale e spontanea predisposizione all’apprendimento, purché inseriti in un ambiente adeguato, scientificamente organizzato per accoglierli.
“Il grande problema dell’educazione risiede nel rispetto della personalità del bambino e nel lasciarne libera l’attività spontanea anziché reprimerla e dominarla.(…)  La soluzione al problema risiede invece in una costruzione positiva che si può enunciare così: per realizzare la libertà del bambino è necessario preparare l’ambiente adatto al suo sviluppo” [M. Montessori, Manuale di pedagogia scientifica, Giunti, Firenze, 1970 (1962), p. 25].


Con le “case dei bambini” (precedute dalle esperienze dei “giardini dell’infanzia” di Froebel e della “scuola materna” delle sorelle Agazzi) si supera l’idea di una scuola costrittiva e direttiva, e si apre una nuova via alla pedagogia  basata sul movimento spontaneo e la libera attività individuale [Cfr. Alatri, L’arredo scolastico dall’unità alla carta della scuola (1939), in “Scuola”, maggio/agosto 1995, n.2, pp. 43-69].
Nel rileggere le opere e nel visitare ancora oggi scuole montessoriane, è possibile cogliere la valenza dell’ordine, della pulizia, della bellezza, nonché degli arredi pensati e studiati su esigenze precise di movimento, autonomia, responsabilità, dei materiali vari in grado di rispondere a bisogni di personalizzazione dell’apprendimento.

I bambini e i ragazzi entrando a scuola si percepiscono e si rappresentano, infatti, con le loro diversità, capacità di scelta, decisione. In genere, però, tale realtà viene scarsamente valorizzata, le differenze tra esperienze, intelligenze, qualità, ignorate. Questo bisogno di personalizzazione contrasta con il modello pedagogico presente nella scuola fondato sul paradigma della classe–platea, imperniato su schemi di standardizzazione che riflettono una rappresentazione spaziale ben precisa. Tale paradigma prevede che vi sia un docente protagonista che propone, in una data unità di tempo, per tutti gli allievi, gli stessi contenuti, utilizzando i medesimi metodi, aspettandosi le stesse risposte. E’ come fare parti uguali – diceva Don Milani – tra soggetti che uguali non sono.

 

Il curricolo globale e personalizzato

L’analisi fin qui condotta evidenzia una doppia esigenza alla quale la scuola è chiamata a far fronte: l’esigenza di personalizzare l’apprendimento e l’esigenza di costruire una comunità di apprendimento. La risposta a ciò può essere rintracciata nell’elaborazione del curricolo scolastico. Partendo dallo zaino come artefatto che rimanda ad “assunti di base” non è difficile risalire all’idea di una scuola dal curricolo frammentato e segmentato. Dal peso e dalla consistenza di materiali presenti negli zaini dei bambini e dei ragazzi si potrebbe concludere che l’insegnante vuol conseguire la propria cittadinanza disciplinare - essere cioè rappresentato con i suoi quaderni, i suoi libri di testo, i suoi strumenti - proprio dentro lo zaino. Lo zaino è come lo specchio di un codice educativo a collezione, che direbbe di una scuola che punta sulla quantità piuttosto che su nuclei fondamentali, in preda del nozionismo piuttosto che attenta alle competenze e alla transdisciplinarietà [Cfr. B. Bernstein, Class, Codes and Control, in M.Goldberg – A.S. Tannenbaum, L’educazione degli svantaggiati,  Mondadori, Milano 1971 e B.Bernstein, Class, Codes and Control,Toward a Theory of Educational Control, Routledge e Kegan Paul, London, 1975 e F. Cambi, La progettazione curricolare nella scuola contemporanea, Carocci, Roma, 2002 e F. Cambi, Saperi e competenze, Carocci, Roma, 2004].

In una parola dice della difficoltà della scuola a progettare un’azione globale, a far lavorare insieme i docenti e al contempo indica che lo studente è passivo e dipendente, costantemente bisognoso di essere seguito. 
Eppure l’esperienza che gli studenti vivono nel contesto scolastico non può, tuttavia, che definirsi globale [Per il curricolo come dimensione esperienziale e globale si veda C. Scurati, Un curricolo nella scuola elementare, La Scuola, Brescia, 1977].

La progettazione non si dovrebbe limitare, pertanto, agli elementi disciplinari, ma implica il coinvolgimento dei molteplici ambiti della vita della comunità di studenti e docenti. Perciò nel curricolo è possibile individuare un intreccio significativo tra due dimensioni: la dimensione sovrastante (la definizione degli obiettivi, dei percorsi di apprendimento, le modalità organizzative, l’organizzazione didattica) e la dimensione soggiacente (la predisposizione degli ambienti – aule, laboratori, spazi comuni –  e le dimensioni relazionali – modalità, stili di comportamento dei docenti e dei non docenti, degli allievi, regole, contratti formativi). Il curricolo enfatizza la necessità di un disegno progettuale esigente, attento al che cosa e, nello stesso tempo, sensibile al come, consapevole  sia degli obiettivi ovvero dell’oggetto sul quale orientare l’azione didattica, che degli strumenti e dei mezzi per raggiungerli.

Il richiamo all’intreccio di dimensioni diverse (struttura sovrastante/soggiacente, ma anche comunità/personalità, ritmi di apprendimento/stili cognitivi) permette di cogliere la complessità di un’esperienza scolastica che non può darsi nella frammentazione, nell’unidirezionalità e nella standardizzazione, ma che invece vuole giocarsi nella diversità, nella contemporaneità, nella personalizzazione e nel confronto/incontro. La scuola dell’aver cura si dimensiona, quindi, come ambiente facilitante, dove l’apprendere è impegno perché ciascuno assuma la sua forma. 

La struttura della rete ci aiuta a capire meglio la configurazione di una scuola incentrata su un curricolo globale. La rete è una struttura ritenuta centrale nell’apprendimento ed evoca la compresenza di pensieri, legami, nodi: il modo di funzionare del cervello umano di cui dicono gli psicobiologi e i neurobiologi [Cfr. A. Oliverio, La mente. Istruzioni per l’uso, Rizzoli, Milano, 2001].

La didattica per concetti si avvale di tale struttura ed utilizza le mappe concettuali e le mappe cognitive per dispiegare la sua azione. La struttura a rete del cervello e la struttura a rete della didattica per concetti non può allora non riflettersi anche in un’organizzazione che in qualche modo riproduca specularmene all’esterno la rappresentazione a rete, che implica una ristrutturazione delle dimensioni spazio–temporali.  Tutto questo di nuovo comporta il passaggio dallo  spazio monotopo a quello politopo  e da un tempo monocronico ad uno policronico [Il termine monotopo sta ad indicare che un ambiente come l’aula è articolata su una sola dimensione spaziale, al contrario il termine politopo lo utilizziamo per indicare una pluralità di spazi (politopo è una figura geometrica con più di tre dimensioni non rappresentabile graficamente). I termini policronico e monocronico sono impiegati nell’analisi organizzativa proposta da E. Schein (op. cit.)].


Tempo e spazio riconfigurati (policronico e politopo) fanno pensare ad un'aula con più luoghi identitari, più luoghi di lavoro, dove si svolgono in contemporanea (appunto il tempo policronico) attività diverse (anche a livello di materie). Qui il docente si fa facilitatore, organizzatore, deve puntare sull'autonomia dei ragazzi e sul loro senso di responsabilità. Tutto questo comporta che le attività da svolgere dovrebbero essere interessanti, motivanti, significative; la strumentazione e i materiali a disposizione tali che ciascuno potrebbe andare avanti da sé.
Il curricolo soggiacente è fatto da un ambiente sereno, disteso, dove si parla con voce bassa e pacata, dove il rumore è contenuto. Una visione della scuola che favorisce ed incoraggia la responsabilità, la partecipazione e la cooperazione tra bambini e ragazzi attraverso la personalizzazione e una pluralità dei percorsi di apprendimento dove il fare si intreccia con il dire, l’esplorare con il raccontare, i mediatori attivi e iconici con quelli analogici e simbolici, lo stile simbolico–ricostruttivo, tipico della lezione frontale - con quello percettivo – motorio, che caratterizza l’attività laboratoriale.
Il tutto nella convinzione che il sapere intreccia strettamente due dimensioni cognitive: la prima, più arcaica “è la conoscenza tacita, globale e immediata attuata dal corpo e incarnata nella sua struttura e nelle sue funzioni biologiche: è una conoscenza che, a certi livelli, appare guidata dal sistema affettivo e emotivo”. La seconda, più recente sotto il profilo evolutivo “è la conoscenza esplicita, attuata nelle forme della logica astratta e in generale nella razionalità”. Nell’intreccio di questi due aspetti del conoscere si gioca la sfida di una scuola che accetta di confrontarsi con la prospettiva del curricolo globale  e personalizzato, capace di tenere insieme in una feconda dinamica progettuale tutti gli elementi che compongono l’esperienza scolastica [Cfr. G. O. Longo, Il nuovo Golem, Laterza, Roma – Bari, 1998, p. 58. Nelle Indicazioni Nazionali si sostiene che “nella persona, infatti, non esistono separazioni e il corpo non è il ‘vestito’ di ogni individuo, ma piuttosto il suo modo globale di essere nel mondo e di agire nella società” p. 3].

di Marco Orsi e Giuliana Petrini

[Marco Orsi, direttore didattico a Lucca, consigliere dell'IRRE Toscana, è responsabile del progetto “Senza Zaino - Per una scuola comunità”. Tra le sue pubblicazioni, Educare ad una cittadinanza responsabile, Emi, Bologna, 1998; Giuliana Petrini, docente, appartiene al gruppo dello stesso progetto, che ha contribuito ad elaborare].
 

Immagine tratta dall'archivio Dia di Indire e dal sito Abitare la Scuola

 
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