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Imparare al tempo del “farsi media”

Un'interessante riflessione sul concetto di "social software" e sulle sue implicazioni nell'interazione umana

di Fabio Giglietto
27 Maggio 2005

Da alcuni anni è emersa, nell’ambito delle discussioni che hanno luogoBanca Dati Dia su Internet, la pratica di utilizzare l’etichetta “social software” per fare riferimento a un crescente numero di applicazioni orientate a supportare la collaborazione fra gruppi a distanza. L’esigenza, così come l’uso dell’etichetta, non sono nuovi. Da sempre la rete Internet è stata considerata uno strumento di collaborazione e la storia della nascita del World Wide Web – ideato come un sistema di archiviazione e condivisione della conoscenza destinato ai ricercatori  – è un esempio chiaro di questa natura profonda delle rete.

Quello che colpisce leggendo la storia del web è che, da sempre, i suoi ideatori avessero in mente uno spazio dove il lettore e l’autore fossero entrambi in grado di contribuire attivamente al processo di sviluppo della conoscenza. L’idea che c’è alla base è quella dell’ipertesto aperto. Se si pensa un attimo all’uso del web così come noi oggi lo conosciamo, sembra evidente che le cose siano andate in un altro modo: al web sono state applicate le logiche mediali che tanto gli autori quanto gli spettatori hanno imparato a conoscere attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La logica del portale multifunzionale, quella della vendita degli spazi pubblicitari, le offerte di connettività che privilegiano il canale di download a quello di upload, l’attenzione all’auditel nella sua versione riveduta e corretta di audiweb, costituiscono altrettanti esempi di questo modo di intendere il web come un mezzo di comunicazione “a sola lettura”.

Eppure l’infrastruttura della rete Internet è paritetica. Ogni computer collegato, con il suo numero identificativo univoco, è in grado tanto di ricevere quanto di inviare informazioni. Da pari a pari. A poco a poco gli utenti se ne sono accorti. Poi è venuto Napster e la pletora di network peer-to-peer dai quali oggi è possibile scaricare in poche ore musica, film e programmi televisivi. Oggi i contenuti più scambiati sono quelli di cui non si detiene il copyright, ma l’infrastruttura supporta, al tempo stesso, la diffusione di contenuti auto-prodotti dagli utenti. Da tempo la tecnologia per realizzare un film o quella per registrare un album musicale hanno raggiunto costi e facilità d’uso impensabili solo pochi anni fa. L’infrastruttura di Internet rende possibile la distribuzione globale di questi contenuti presso un'audience potenzialmente mondiale a costi molto bassi. La disponibilità di uno strumento di pubblicazione come Internet era il tassello che mancava per realizzare la pulsione al "farsi media". Il primo mezzo di comunicazione di massa per le masse.

Viene spontaneo domandarsi Banca Dati Diacosa accadrà con la disponibilità di questa enorme massa di contenuti. In mancanza di filtri all’atto della pubblicazione, chi ne certificherà i contenuti? Come sarà possibile orientarsi verso i contenti di qualità evitando lo spam dell’informazione? Domande a cui è difficile rispondere senza scadere nella futurologia. Eppure a ben guardare il "farsi media" è già oggi. Per ora ha una forma quasi unicamente testuale ma il caso dei blog può aiutarci a capire dove stiamo andando. Ad oggi la rete conta circa 10.300.000 “diari di bordo” con i loro messaggi ed i relativi commenti. Ogni web-log rimanda ad altri web-log nella forma della citazione o della esplicita segnalazione.
Alcuni trattano di temi personali in una forma simile a quella del diario, altri sono tenuti da professionisti del giornalismo, della tecnologia o della ricerca scientifica. Contenuti diversissimi e incommensurabili. Per quanto ci riguarda conta tuttavia la forma più che il contenuto. E la forma è quella tipica di un media di massa. Ben presto l’autore di un blog si trova a pensare ed agire come un media. Pubblico questo o quell’altro argomento, cosa ne pensano i miei lettori, come posso far conoscere i miei contenuti ad un numero maggiore di persone, cosa scrivono negli altri blog…
Esistono vere e proprie strategie di marketing dei propri contenuti e, in fondo, di se stessi. Si tratta tuttavia di un marketing dove la qualità del contenuto percepito dal lettore è fondamentale. Come già il web-marketing ha insegnato, una visita procurata con una pubblicità ingannevole è perfettamente inutile perché si esaurisce nello spazio dei pochi secondi durante i quali l’utente si rende conto di non essere interessato a quei contenuti.

Si tratta di un mercato in cui la fiducia è tutto. Decidere in che negozio comprare un articolo, quale film andare a vedere al cinema o da quale medico rivolgersi per un certo problema di salute costituiscono classici esempi nei quali facciamo affidamento alle reti sociali per muoverci nella complessità. In genere si chiede consiglio a persone verso le quali nutriamo fiducia, se non altro rispetto al settore specifico di riferimento. E queste ci indirizzano su persone verso le quali esse nutrono fiducia. Può capitare di chiedere diversi pareri a ciascuno dei quali attribuiamo più o meno peso a seconda della fiducia che nutriamo verso le persone che li hanno espressi. 

Qualcuno potrebbe essere sorpreso nel venire a conoscenza che la logica di funzionamento del motore di ricerca Google, il criterio con il quale mette in ordine e ci presenta i risultati di una ricerca, si fonda esattamente su una variante tecnologica dello stesso principio. Il ragionamento che sta alla base di questo algoritmo di “Page Rank” è fondato sull’assunto che un sito linkato (e dunque segnalato) da molti altri siti rappresenta una risorsa utile per la comunità. Ma non tutti i link contano allo stesso modo. Un link al mio sito proveniente da un sito che a sua volta ha molti collegamenti in entrata (ha dunque una buona reputazione) è considerato più “pesante” di un link proveniente da un sito con pochi collegamenti in ingresso.

Una cosa simile avviene con i blog. In genere si inizia da un blog di fiducia. Magari una persona che si conosce personalmente, un collega o un amico. Poi si inizia a visitare i blog che il nostro conoscente cita più di frequente. Poi quelli citati più di frequente da quelli citati dal nostro conoscente. In breve tempo ci si ritrova a leggere un numero significativo di post al giorno. Nel tempo libero, come quando si legge il giornale. Solo che in questo caso i contenuti che leggiamo riguardano degli argomenti di nostro specifico interesse e sono prodotti, in gran parte, da non professionisti.

La logica è la stessa della reti sociali Banca Dati Diache ben conosciamo. Quello che cambia è la scala. Più persone partecipano a questo gioco di selezione collaborativa dei contenuti, più il gioco funziona bene. Più il gioco funziona bene, maggiore è la quantità di contenuti che si possono controllare. Su questo stesso modello esistono numerosi altri esempi fondati sulla classificazione sociale o collaborativa dei contenuti. La pratica di etichettare i contenuti del web è parzialmente simile ad una recensione ridotta ai minimi termini. Il fatto che gli utenti abbiano fatto lo sforzo di etichettare un certo contenuto dovrebbe far supporre che si tratta di una risorsa in qualche modo valida rispetto alla categoria nella quale è stata classificata. Si tratta dunque di una forma di knowledge management distribuito. Come tutte le attività che sorgono spontaneamente nella forma dell’auto-organizzazione, anche la classificazione sociale dei contenuti ha la sua potenza ed il suo limite nell’auto-coordinamento. Non esiste una entità esterna che possa decidere della qualità della classificazione, e questo
dunque non impedisce che in linea teorica qualcuno classifichi qualcosa deliberatamente sotto una etichetta sbagliata. Anche il controllo della qualità si esprime in questi ambiente in una forma non gerarchica ma distribuita, che ricorda la pratica delle peer review degli articoli scientifici in ambito accademico.

Particolarmente interessante in questo senso è il caso dell’enciclopedia collaborativa Wikipedia e - in una forma ancora più evidente - il caso dell’esperimento di giornalismo collaborativo denominato Wikinews. Nato da una costola di Wikipedia, Wikinews sfrutta la stessa logica distribuita per la realizzazione di un sito collettivo di news. L’idea è che essendo Internet una struttura distribuita sul territorio mondiale, sia ragionevole pensare di trovare qualcuno che possa raccontare i fatti da una prospettiva ravvicinata senza appoggiarsi alle agenzie di stampa. Ovviamente, come nel caso dell’enciclopedia, il fatto che tutti possano in linea teorica partecipare non significa che tutto possa essere pubblicato. Per questo motivo il controllo di qualità è affidato ad altri partecipanti al progetto che contribuiscono alla causa da questa diversa prospettiva. Alla prova dei fatti questa strategia della peer review si è dimostrata, almeno fino a questo momento, alquanto macchinosa e non sempre efficace. Se i tempi di pubblicazione o di revisione di un lemma di una enciclopedia possono essere ragionevolmente dilatati nel tempo, altrettanto non si può dire per una notizia, che perde gran parte del suo valore se comunicata troppo tardi. Sul piano della qualità dei contenuti, invece, alcune imprecisioni sono state fatte notare da esponenti della comunità accademica. Sia nel caso delle notizie, sia in quello dell’enciclopedia, emerge il problema del rapporto con la verità. Mentre tuttavia il giornalismo (ed il sistema dei media in generale) ha da tempo risolto questo problema demandandolo ad una forma di “etica” interna al sistema e dunque a una forma di auto-controllo affidato alla gerarchia (il direttore di testata, di rete, etc.) e ai giornalisti stessi, altrettanto non si può dire di una enciclopedia. In questo ultimo caso il rapporto con la verità è demandato alla comunità accademica cui è affidato il compito di dire cosa è vero e cosa non lo è in campo scientifico. In questo senso, mentre Wikinews potrà riproporre la forma di auto-controllo propria del sistema dei media, Wikipedia sarà sempre soggetta al giudizio finale sulla qualità dei propri articoli intesa come aderenza o meno alle verità di volta in volta proposte dal sistema della scienza.

Oltre al controllo di qualità esistono anche altri problemi intrinseci dei sistemiBanca Dati Dia basati sull’auto-organizzazione collaborativa. Nel caso dell’etichettamento dei contenuti, infatti, emerge evidente il problema dei sinonimi, dei plurali e delle etichette non culturalmente neutrali. Dietro la stessa etichetta potrebbero infatti nascondersi significati (e quindi contenuti) diversi a seconda dell’osservatore. Allo stesso modo le categorie "gatto" e "gatti" rendono necessario cercare in due categorie diverse invece che in un una. Così anche "animali" potrebbe contenere proprio la foto del gatto che stavo cercando. Questo senza entrare nelle differenti interpretazioni culturali di una certa etichetta (si pensi ad esempio ai colori). La struttura delle etichette è piatta e, non essendo stata pianificata a priori, i margini semantici di una categoria tendono a confondersi e sovrapporsi con quelli delle altre. Proprio in relazione a questa strutturale indeterminatezza, è stato coniato il termine di "semantiche emergenti" per contrapporre questo tipo di sistemi di classificazione a quelli dove le categorie semantiche sono fissate all’inizio e dall’alto. Si pensi ad esempio ai sistemi di classificazione delle biblioteche o alle directory gerarchiche di contenuti come Yahoo!. Spesso, inoltre, queste forme di semantiche emergenti sono osservate in opposizione più o meno palese rispetto al progetto del Web Semantico ideato da Tim Berners Lee. L’ultima visione dell’inventore del World Wide Web prevede infatti alla propria base l’esistenza di "ontologie web", ovvero descrizioni formali di certe aree del sapere o domini concettuali progettate per essere consistenti e non contraddittorie. Un'ontologia deve essere progettata da qualcuno ed accettata da tutti gli altri affinché sia efficace.

Da questo punto di vista le ontologie web si contrappongono alle folksonomie. Queste ultime, essendo costruite dal basso, emergono dall'attività dei singoli utenti e non necessitano dunque di nessun accordo preventivo. Uscendo dalla logica della contrapposizione diretta è possibile interpretare questi due sistemi di classificazione all'apparenza mutuamente esclusivi secondo una linea di continuità che considera le semantiche emergenti proprie delle folksonomie come versioni leggere - meno strutturate - delle ontologie.

Una soluzione elegante di superamento di questo dualismo sta nell'idea della folktology.
Si tratta di consentire alla comunità degli utenti non sono di classificare i contenuti secondo uno schema semantico dato (una ontologia), ma di poter modificare le classi che costituiscono gli schemi premiando o punendo con un sistema di credito/discredito le classificazioni più o meno utilizzate dalla comunità. Una specie di logica evolutiva dell’ontologia. Allo stesso modo, se esistesse un sistema semplice per poter creare una propria ontologia personale (in fondo è quello che tutti facciamo quando classifichiamo i nostri documenti nelle cartelle del file system di Windows) e per condividerla, si potrebbero veramente creare degli interessanti software sociali di classificazione che possano unire il rigore delle ontologie con la logica “dal basso” e democratica delle folksonomie.

Ma c’è dell’altro. Mentre servono per selezionare, queste reti di relazioni fatte di collegamenti ipertestuali ci raccontano qualcosa sui nostri gusti e sulle tendenze. Diventa quindi possibile, ad esempio, osservarci nello specchio di Google per leggervi lo spirito del tempo. Si scopre così che la keyword "tsunami" ha primeggiato nel mese di gennaio 2005 superando persino l’eterna regina delle ricerche web Britney Spears. Allo stesso modo, dando uno sguardo alle etichette usate dagli utenti per catalogare le fotografie digitali pubblicate sul servizio Flikr, possiamo concludere che gli utenti del sito tendono a fotografare più i gatti (26.626 fotografie) che i cani (22.988).

Esiste un'intera classe di software sociali dedicati all’etichettamento collaborativo di Vai su "43things.com"contenuti. Applicando un’etichetta ad un certo sito Internet posso creare delle directory di risorse disponibili in rete: forse meno strutturate di quella di Yahoo!, ma non per questo meno utili. Funziona in questo modo del.icio.us che si presenta proprio come un sistema di bookmark sociale. Anche in questo caso posso farmi un’idea di questa comunità guardando le etichette più popolari. La prima è "blog" seguita da "software" e da "web". Non è difficile concludere anche sulla base di uno sguardo molto superficiale che molti degli utenti di del.icio.us sono anche blogger e che comunque, in media, il servizio attiri un pubblico di utenti spesso professionisti dell’informatica o interessati ai temi dell’informatica. Su questa caratteristica gioca anche 43 Things, nel quale l’utente deve segnalare un certo numero di cose (fino a 43 appunto) che intende portare a termine. Un elenco di buoni propositi sul modello di quelli che si fanno all’inizio di un nuovo anno. Una volta stilato il proprio elenco, il sistema provvede a mettere in contatto diretto gli altri che condividono gli stessi obiettivi. Ci si può scambiare consigli o farsi coraggio a vicenda. Uno sguardo aggregato ci porta a scoprire che la cosa che più di tutte rientra fra gli obiettivi indicati è innamorarsi. Riuscite a pensare ad un modo migliore di innamorarsi che frequentare una comunità che condivide con noi questo preciso scopo nella vita?

Le realtà emergenti dalle operazioni di questi software sociali sono accomunate da una tendenza che è possibile riscontrare anche in altri ambiti del web. In genere esistono quasi sempre poche etichette estremamente affollate e un numero sterminato di etichette poco o nulla utilizzate. Questo dato fa il paio con quello che riguarda il numero di post in un blog, e i link in ingresso. Anche in questo caso si assiste a fenomeni di concentrazione estremamente significativi e regolari che hanno fatto parlare qualcuno di una vera e propria "legge del web".

Aprire il proprio blog è una pratica piuttosto comune nelle scuole.
Si tratta di software gratuti per la pubblicazione dei contenuti sul web piuttosto semplici da utilizzare, che ci mettono in poche mosse di fronte ad un'audience potenzialmente globale. L’idea di essere osservati è implicita nel blog. Da questo punto di vista è evidente il paradosso fra una struttura narrativa simile a quella del diario personale e la natura pubblica di questi spazi. Ma quello che qui interessa è il fatto che il blog implichi l’idea di un pubblico.

Gestire un blog equivale a entrare nella logica delle comunicazioni di massa dal punto di vista di chi comunica. Si tratta di un'esperienza inedita che ha notevoli conseguenze sul piano epistemologico. Il pubblico di un blog è indistinto come lo è quello tipico dei mass media. Può farsi vivo e dire la sua opinione usando lo spazio riservato nei commenti, ma questo non fa che ribadire un'asimmetria strutturale fra il padrone di casa e gli ospiti. La presenza di un pubblico (o l’idea che un pubblico potrebbe essere presente) evoca l’idea di un dialogo fra due. Io e il mio pubblico. Ma questo pubblico astratto, etereo e generalizzato non è null’altro che l’idea concretizzata della consapevolezza della presenza nell’ambiente di altri osservatori.
Quando il numero di osservatori potenziali eccede le mia capacità di considerarli nella loro singolarità compare il concetto di pubblico come insieme indistinto.
Le caratteristiche del mio pubblico in quanto insieme di osservatori eterogeneo sono indistinte ed un po’ sfumate, ma non possono esserlo troppo da impedirmi di fare delle scelte sulla base dell’idea che mi sono costruito del mio pubblico. Pienamente dentro la logica dei mass media inizio a ritenere di conoscere il mio pubblico e agisco di conseguenza. In questo modo il dialogo si trasforma in un monologo fra me ed la mia idea del mio pubblico. Questa chiusura autoreferenziale non è una degenerazione del sistema dei mass media, ma una sua caratteristica strutturale e ineliminabile che ha a che fare con il fatto che l’osservatore (il sistema dei mass media) non può conoscere la vera natura del suo pubblico.

Fare esperienza di questa prospettiva è un'opportunità straordinaria che si concretizza grazie alla contemporanea disponibilità di mezzi di produzione (videocamere, fotocamere, registratori digitali) e di diffusione globale (la rete Internet) vastamente accessibili. Ma le ricadute non si limitano al rapporto con i mezzi di comunicazione di massa. Nell’usare le logiche dei media impariamo ad usare in modo critico la distinzione auto/etero-referenza. Si tratta di un processo di osservazione di osservazioni e specificamente di una auto-osservazione. L’operazione di auto-osservazione è centrale nello sviluppo di una capacità critica sul proprio modo di osservare e dunque di relazionarsi con gli altri.

Nell’ambitoBanca Dati Dia, Indire di un quadro teorico come quello proposto non è infatti possibile esternalizzare totalmente la causa di un fallimento, di una relazione interpersonale difficile o di una classe che non apprende. Ogni etero-riferimento è infatti da porre in relazione con l’immagine dell’etero che ci siamo costruiti. Ogni etero-riferimento, dunque, rimanda implicitamente a un auto-riferimento. È troppo facile dare la colpa agli altri senza pensare in primis a qual è il nostro contributo personale al fallimento. Prendere coscienza di questo stato di ineliminabile auto-riferimento dei sistemi viventi e dei nostri processi cognitivi pone le basi per una più corretta apertura verso l’esterno. Questo nuovo modo di guardare a noi e agli altri ci porta ad apprezzare l’accordo come un improbabile caso di successo nel coordinamento di sistemi operativamente chiusi. Allo stesso dovrebbe cambiare il modo di guardare all’insegnamento. Attraverso l’esperienza del farsi media è infatti possibile interiorizzare le logiche dell’apprendimento proprie di un mondo dove la conoscenza e l’informazione si costruiscono e non si trasferiscono.


Fabio Giglietto - blog: http://nextmedia.blogspot.com
Ricercatore LaRiCAFacoltà di Sociologia Università di Urbino “Carlo Bo”

 

 
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