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MEDIA EDUCATION

A Calgary non c’erano solo lavagne…

Al Global Summit of Educational Technologies la sperimentazione a scuola

di Massimo Faggioli
29 Novembre 2006

Il Global Summit of Educational Technologies ha avuto luogo nei primi giorni di novembre in Canada, a Calgary, la città dove è nata SMART Techologies, forse il maggior produttore mondiale di lavagne interattive. L’evento organizzato proprio dall’azienda canadese e dal Foreign Affairs and International Trade Canada, ha messo a confronto alcune tra le più importanti iniziative in atto nel mondo nel campo dell’applicazione dell’ultima generazione di tecnologie didattiche, quelle per intenderci che vanno oltre l’uso convenzionale di personal computer in laboratori di informatica modellati sulla struttura convenzionale della classe. Tecnologie che entrano in classe, tecnologie che rimescolano la tradizionale distinzione tra off line e online e che propongono, anche nell’ergonomia, nuovi rapporti tra l’uomo e la macchina.

La lavagna interattiva è un esempio di punta di questo indirizzo di ricerca, il successo commerciale di questo strumento è probabilmente superiore alle aspettative di chi l’ha ideata e realizzata, l’oggetto ha rapidamente travalicato i confini del mercato per il quali era stato pensato (i luoghi dell’istruzione e della formazione) e ha fatto la sua comparsa in ambienti di lavoro in cui la comunicazione ha un ruolo determinante, nelle aziende, negli studi professionali, nelle istituzioni. E’ un indice importante della sua versatilità e della sua efficacia: la lavagna interattiva va bene per enfatizzare l’efficacia della lezione frontale, ma è anche (e soprattutto) uno strumento di condivisione; si può usare come periferica di un computer ma funziona anche in rete locale o su Internet; si può usare con un’analogia quasi assoluta con le funzioni della vecchia blackboard di ardesia ma permette (senza mutare le forme dell’interazione percettiva e motoria con l’oggetto) una serie infinita di possibilità in più.

Ma al Summit di Calgary il focus non era tanto sugli strumenti quanto sul “che fare”, su come approfittare dell’eccezionale evoluzione delle potenzialità delle tecnologie a disposizione degli educatori per innescare processi reali di innovazione della scuola. E’ un problema a più facce, in Canada abbiamo esperito soprattutto quella che interessa i decisori politici e che si può sintetizzare nel dilemma, molto sentito anche nel nostro paese nell’ambito della riflessione sugli ultimi anni di politica della formazione degli insegnanti, tra  chi crede in azioni di larga scala e chi punta su processi di disseminazione dell’innovazione, che puntino sulla formazione di nuclei di insegnanti innovatori. Non è un problema di poco conto, posto che accanto ai paesi che, come quelli dell’Unione Europea dopo gli accordi di Lisbona, tentano di adeguare i loro sistemi a un mercato globale del lavoro che richiede flessibilità e creatività sempre crescenti, c’è la sfida dei paesi in via di sviluppo che devono affrontare ora i problemi legati alla scolarizzazione di massa e puntano ad adottare da subito le soluzioni più avanzate.

Dia IndireA Calgary questo mix di strategie convergenti era molto evidente: c’erano le istituzioni del vecchio continente alle prese con l’esigenza di dare un’accelerazione al rinnovamento dei loro sistemi scegliendo in qualche caso politiche di dotazione "a pioggia" di nuove tecnologie nelle loro scuole. E’ il caso del Regno Unito dove negli ultimi due anni sono stati installati più di 3000 kit di alta tecnologia nelle classi. C’erano poi realtà come NEPAD, il consorzio dei ministeri dell’istruzione dei paesi africani, che sta sviluppando una rete telematica con connessioni satellitari per collegare in banda larga una rete amplissima di scuole. Accanto a questi progetti più orientati alla diffusione dei supporti tecnologici, c’erano progetti più mirati allo sviluppo dei contenuti digitali come il messicano “Encyclomedia”, un grande repository di lezioni e risorse didattiche da fruire online da parte di un sistema di scuole collegate in rete e dislocate in territori molto vasti. E c’erano infine programmi come quello presentato dagli australiani, basati sull’uso di Internet come strumento per abbattere l’isolamento geografico delle scuole e costituire delle virtual classroom per i ragazzi delle piccolissime scuole disperse sui vasti territori del sud-est del continente.

Per l’Italia era presente Mario Dutto, il Direttore Generale ella Lombardia, che ha illustrato l’iniziativa "Lavagna Interattiva Multimediale e Didattica”, uno dei pochissimi progetti italiani di larga scala che lega la dotazione di tecnologie a processi di formazione. Nel nostro paese si sono succedute negli ultimi dieci anni due fasi di intervento per il supporto all’uso delle nuove tecnologie nella scuola, la prima dal 1997 al 2000 caratterizzata da un forte investimento in macchine, software e connettività (il PSTD, Piano di sviluppo delle tecnologie didattiche); la seconda, negli anni seguenti, mirata alla formazione tecnologica di massa dei docenti (il piano ForTIC). Le due fasi hanno sicuramente conseguito risultati importanti, la prima ha aperto le porte all’ingresso diffuso dei computer nelle scuole, la seconda ha prodotto l’alfabetizzazione informatica di circa 200.000 insegnanti. Tuttavia la disarticolazione delle due fasi e il loro dispiegarsi in un arco di tempo così lungo ha disperso molte delle risorse umane e finanziarie impegnate: le macchine sono diventate obsolete prima che ci fossero docenti pronti a usarle, la formazione di massa ha coinvolto spesso realtà scolastiche in cui non c’erano le condizioni organizzative e le risorse tecniche per partire con progetti di innovazione didattica reale.

Rispetto agli scenari passati, il progetto della Lombarda si presenta una marcia in più, molto interessante per chi riflette sulle cose di casa nostra in materia di TIC a scuola: le scuole lombarde che partecipano al progetto non ricevono gratuitamente gli strumenti tecnologici. Agli istituti scolastici autonomi è richiesto un impegno, in una sorta di co-finanziamento, che presuppone una manifestazione concreta di interesse e che si realizza nell’investimento di fondi della scuola per finanziare una quota dell’acquisto. E’ un modo per rompere il circolo vizioso tra i piani decisi dal centro e la partecipazione individuale dei docenti o di gruppi di docenti ai progetti: la scuola, come soggetto che progetta e che programma i propri investimenti, torna ad essere il soggetto al centro delle iniziative di innovazione. In questo modo si previene la dispersione di risorse che affligge tanti progetti "a pioggia” in cui gli strumenti fanno la loro comparsa a scuola senza che nell’istituto si sia riflettuto sulla loro utilità in funzione del contesto in cui opera la scuola e senza che siano state individuate risorse umane e professionali che daranno corpo al progetto stesso. Le scuole lombarde che partecipano si impegnano anche ad accompagnare la sperimentazione delle nuove tecnologie con una formazione continua, una sorta di coaching che assiste i docenti innovatori per tutto il tempo in cui essi sviluppano le attività in classe con i nuovi strumenti.


Al Summit dunque, e non poteva essere altrimenti, sono state messe a confronto realtà molto eterogenee, c’era però un comune denominatore che attraversava tutti questi progetti: come convincere gli insegnanti a lavorare con queste tecnologie? Come spostare il focus dall’acquisizione degli  strumenti alla progettazione di una loro reale integrazione nella didattica quotidiana? La leva strategica di questo processo passa per tutti dalla formazione, ma direi meglio dalla motivazione e dalla riqualificazione professionale degli insegnanti. Ma come procedere? Verrebbe spontaneo pensare che il primo lavoro da fare consiste nel riavvicinamento dei due momenti chiave dello sviluppo professionale del docente: quello della formazione (in cui il docente, per usare un lessico obsoleto, si aggiorna) e quello della sperimentazione (in cui il docente, o meglio il team, mette alla prova le nuove strategie con i propri studenti). A Calgary abbiamo visto un centro per la formazione degli insegnanti, in cui i docenti e gli esperti di scuole lontane lavoravano insieme in modalità cooperativa partecipando a discussioni in videoconferenza ed elaborando progetti comuni grazie al supporto di lavagne interattive collegate tra loro. Abbiamo visto poi in una scuola elementare le stesse tecnologie adoperate in classe, in un contesto che dimostrava come le stesse lavagne, appese al muro insieme alla lavagna tradizionale e a tutti gli strumenti che fanno parte dell’arredo della classe, perdono per l’insegnante e per i bambini quell’aura da alta tecnologia che spesso si traduce in un ostacolo all’uso “normale” e quotidiano. Tutto questo ci conduce a esprimere alcune considerazioni:

  • Il docente deve lavorare nell’ambiente di formazione con gli stessi strumenti e con le stesse metodologie che potrà usare in classe: va quindi creata un’affinità forte tra queste due fasi, troppo spesso separate nel tempo (in una visione meccanica che vorrebbe prima "l’aggiornamento” e poi la “ricaduta”),  nell’organizzazione (il corso di formazione come entità altra rispetto al lavoro quotidiano) ma anche nel setting tecnologico e nelle metodologie di lavoro impiegate.
  • La contapposizione tra attività in aula e attività online è un’idea sfumata nei fatti dall’evoluzione degli strumenti tecnologici: si può lavorare in aula collegati con altri, si può lavorare online per condividere strumenti e riflessioni dell’agire nel proprio contesto professionale, rispetto ai modelli blended basati sulla parcellizzazione del tempo in aula e del tempo online potrebbe avere più senso parlare di integrazione tra il tempo della formazione sincrona (in aula reale o virtuale) e il tempo del lavoro asincrono (in autoformazione individuale o in community online).
  • Se vogliamo che la formazione modifichi in senso innovativo la pratica professionale dei docenti occorre andare verso progetti unitari: non c’è un tempo della formazione e un tempo della sperimentazione; sembrerebbe più opportuno progettare un intreccio tra i due momenti adottando procedure di coaching, di formazione di accompagnamento che seguano e assistano, per tutta la loro durata la sperimentazione dell’innovazione in classe, mettendo in gioco i docenti e gli esperti e puntando alla creazione di comunità di pratica.
  • Le tecnologie, per funzionare realmente come aiuto allo sviluppo professionale, devono essere semplici, adatte a un uso quotidiano, devono iscriversi nel registro degli utensili perdendo l’alone magico che ancora detengono e che è enfatizzata dalla loro collocazione in luoghi diversi dall’aula in cui gli studenti lavorano abitualmente.


Non ci dimentichiamo di un paradosso talmente pervasivo da essere ormai invisibile: quando parliamo di nuove tecnologie didattiche quasi sempre proponiamo ai docenti macchine e software nati, progettati e sviluppati per l’ufficio. Concentriamoci su questo paradosso: sarebbe come se per la scuola elementare non esistesse l’editoria scolastica e quella per ragazzi, o come se non esistesse l’industria degli arredi scolastici e quindi si dovesse ricorrere al normale mercato per arredare una scuola! Eppure la ricerca su nuove tecnologie che si adattino alle esigenze ergonomiche e percettive di bambini e giovani studenti è quasi del tutto assente sia nello sviluppo del software (che riguarda un mercato che almeno da noi è ancora molto immaturo) sia, tantomeno, dell’hardware.


Il successo che riscuote nelle scuole l’uso della lavagna interattiva può essere letto come una conferma dell’esistenza di questa contraddizione: non siamo di fronte all’ennesima moda passeggera ma alla diffusione di  uno strumento che propone un modo nuovo di interagire con la macchina. L’aspetto più suggestivo non sta tanto nella metafora della lavagna, adottata dai progettisti di un apparecchio che in realtà altro non è che una periferica con dispositivi di puntamento che sembrano i pennarelli e la cimosa, quanto nel fatto che il grande touch screen permette di lavorare al computer con le mani, di abbandonare la dimensione della motricità fine a cui siamo innaturalmente costretti dall’uso di mouse e tastiera per compiere le principali azioni con i computer.

Lavorare al computer in un ambiente didattico vuol dire oggi, a livello di interfaccia, lavorare su oggetti, trascinare, ingrandire, manipolare. La lavagna restituisce a chi lavora  un uso libero e naturale delle mani per compiere queste azioni. C’è insomma la possibilità di abbandonare la costrizione fisica, imposta dai dispositivi della macchina per l’ufficio, e di rimettere in moto la fisicità del corpo della persona che agisce. E’ una direzione di ricerca molto suggestiva per gli educatori, una direzione su cui abbiamo avuto modo di vedere sviluppi e prospettive molto interessanti.

Per esempio, il settore di ricerca di SMART Technologies ha presentato al Summit il prototipo di un tavolo interattivo: il touch screen si sposta sulla superficie di un tavolo e le persone che vi siedono intorno possono interagire, tutti insieme, sugli oggetti che vi si trovano, spostandoli, classificandoli, modificandoli con l’uso delle mani, come se si trattasse di oggetti reali posti sulla superficie di un tavolo reale. Sono piccoli esempi di come si possa andare verso la creazione di nuovi modi, più “umani” per lavorare con le macchine: forse non è la scuola che deve colmare tutta la strada che la separa dalle nuove tecnologie, forse anche i venditori di macchine per l’ufficio dovranno, quando bussano al mercato della scuola, presentarsi con qualcosa di nuovo.

 
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