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MEDIA EDUCATION

Scuole,tecnologie, apprendimento: scenari del futuro

Insegnamento e apprendimento, un rapporto da ripensare

di Giovanni Biondi
02 Marzo 2007

Molto è stato scritto, e molte promesse sono state fatte, sulla miriade di modi in cui la tecnologia trasformerà l’educazione. Immagini di studenti che esplorano nuovi mondi, di insegnanti che gestiscono ricchi archivi di contenuti digitali, di decisioni prese su una vasta gamma di dati hanno giustificato la spesa di decine di miliardi di dollari in tecnologia per le nostre scuole.

Eppure con ogni anno scolastico arriva un nuovo studio che dice che nella maggior parte delle classi dell’obbligo, la tecnologia non è stata integrata nella pratica didattica in maniera significativa. Abbiamo alcuni esempi brillanti dell’applicazione della tecnologia mostrati nelle riviste e alle conferenze, ma a oggi non siamo riusciti a capire il futuro degli ambienti di apprendimento ricchi e personalizzati, come promesso. Per capire perché è così, dobbiamo riconoscere che inserite in questa visione di trasformazione non ci sono una, ma due sfide:

  • Rendere la tecnologia ampiamente disponibile nelle scuole e assicurare che le condizioni per il suo uso efficace esistano:
    specialmente il supporto tecnico e lo sviluppo professionale per gli insegnanti.
  • Allineare queste risorse tecnologiche alle classi in modo che raggiungano lo scopo finale di migliorare l'insegnamento e
    l’apprendimento
    .


Chiaramente queste due sfide sono collegate, ma ognuna ha le sue questioni e i suoi obiettivi, e possiamo riuscire a vincere  la prima, ma non la seconda. Mi sembra chiaro, comunque, che non raggiungeremo mai la trasformazione che cerchiamo senza affrontare entrambe le sfide insieme”.

L’obiettivo ultimo dell’integrazione della tecnologia didattica nell’educazione è migliorare i risultati degli studenti, ma perché questo avvenga è necessario che gli insegnanti guardino la tecnologia in modo positivo, che siano a loro agio con la tecnologia, e la usino efficacemente prima che si possa realizzare il miglioramento dei risultati dei ragazzi. La formazione degli insegnanti è quindi una questione centrale. Più crescono le installazioni tecnologiche nelle scuole, più aumenta l’esigenza che gli insegnanti integrino la tecnologia nella didattica. Molti insegnanti non sono stati messi in grado di cercare e trovare modi efficaci di usare la tecnologia in classe. Una spiegazione possibile, per questo mancato successo, è che, troppo spesso, l’uso della tecnologia in classe è stato visto in termini di semplice acquisizione di competenze, piuttosto che come un processo di cambiamento che influenza il comportamento degli individui a un livello molto profondo.

Un recente studio condotto nei paesi del nord Europa ha evidenziato come, rispetto a un potenziale utilizzo delle ICT per trasformare sia il loro modo di insegnare che il modo di impostare e favorire l’apprendimento, gli insegnanti in realtà limitino il ricorso alle tecnologie solo “dove e quando queste siano in grado di supportare i contenuti dell’insegnamento piuttosto che per trasformare in modo più generalei metodi educativi”. In altre parole le conclusioni di questo recente studio evidenziano come a fronte di risultati positivi anche sotto il profilo degli apprendimenti, le potenzialità delle TIC non siano ancora utilizzate al meglio nella scuola. “The use of ICT as a tool for pedagogical development is not in focus and the impact of ICT on knowledge-sharing, communication and home – school co-operation in only moderate”. Anche da questo rapporto che interessa quattro paesi europei, emerge come nel 2006 i ragazzi usino il computer e la Rete molto di più fuori della scuola che dentro le aule e come quindi si formino le loro “ICT competence” prevalentemente in altri ambienti e spesso senza percorsi organizzati di apprendimento, ma secondo modelli e metodologie basate soprattutto sui “tentativi ed errori”, supportati dall’aiuto dei coetanei e/o delle poche istruzioni che accompagnano spesso programmi e dispositivi. “I programmi standard (videoscrittura, foglio elettronico, data base ...) vengono invece appresi a scuola, tutto il resto fuori”. Generalmente gli studenti vorrebbero usare i computer molto di più di quanto avviene in realtà e l’indagine dimostra come l’impatto che le ICT hanno a scuola dipenda moltissimo da come e quanto sono utilizzate. Nel loro rapporto con la tecnologia sembra, infatti, che gli studenti tendano a essere più consumatori che produttori, a lavorare più da soli che in modo cooperativo. Questi aspetti dovrebbero in realtà essere oggetto dell’intervento della scuola e derivare dal lavoro e dal modo di utilizzare le tecnologie in classe, poiché l’utilizzo spontaneo delle ICT porterebbe inevitabilmente verso i comportamenti descritti.

Il problema maggiore che si evidenzia è comunque l’atteggiamento degli insegnanti: le ICT “non cambiano i metodi di insegnamento degli insegnanti” anche quando vengono usate, sono quindi adattate a obiettivi disciplinari o diventano esse stesse una materia. In questa dimensione del cambiamento strutturale ci troviamo di fronte a una sorta di paradosso: mentre le nuove tecnologie consentono nuove modalità di apprendimento e di insegnamento, anche le tradizionali competenze e i contenuti curricolari devono contemporaneamente essere profondamente rivisitati. Una scuola costruita per una società industriale non può rimanere la stessa, se quella società industriale non esiste più. Non ha quindi senso continuare, per esempio, a usare le stesse categorie per la valutazione dell’impatto delle ICT nella scuola. Immaginiamo una società dove le capacità di stare a cavallo sono ben declinate e conosciute. Improvvisamente, nel giro di un decennio, viene inventata e si diffonde l’automobile e molti studenti diventano abili piloti ampliando la distanza dei loro viaggi e dedicando il loro tempo libero a nuovi interessi (corse automobilistiche, motori ecc.). A un certo punto il governo decide di valutare l’impatto reale sulle competenze “della nazione”. Lo fa rimettendo tutti sui cavalli e valutando il loro stile, la capacità di andare a galoppo o al trotto esattamente come prima. Naturalmente tutti ci accorgiamo immediatamente che tutto ciò è “ridicolous”. Si tratta di una problematica particolarmente accesa nel mondo anglosassone, considerando il rilievo che la valutazione assume in questi paesi, ma che al di là dell’aspetto tecnico, degli strumenti e delle metodologie da adottare, pone di nuovo l’accento sul modo inadeguato con cui si guarda al cambiamento, come se si trattasse di esaminare l’efficacia di elementi di potenziale innovazione inseriti in un quadro sostanzialmente uguale a se stesso. Come se le competenze, cioè, da acquisire oggi siano le stesse di ieri, se le abilità, le conoscenze che la società dell’informazione
richiede siano quelle di cinquanta anni fa. È una prospettiva totalmente inadeguata che impedisce di vedere il problema e soprattutto di avere una nuova visione sulla scuola, sugli ambienti di apprendimento, sui contenuti, sugli strumenti, modi e linguaggi della comunicazione e della didattica.
Per supportare il cambiamento occorre quindi una visione nuova e soprattutto un’immagine della scuola del futuro, che faccia comprendere gli scenari nei quali gli studenti potrebbero muoversi tra venti o trenta anni. Tutta la trasformazione si incentra sulle tecnologie, come dimostra lo studio commissionato nel 2002 dal governo americano: Vision 2020. Una sorta di viaggio nel futuro che descrive la giornata di uno studente o quella di un insegnante nel 2025, l’apprendimento attraverso le simulazioni, i mondi “sintetici”, le classi o le non-classi, il tempo e lo spazio dell’apprendimento. Il problema delle ICT è strettamente impastato, legato a quello delle competenze degli studenti del XXI secolo: dalle classiche tre R (Reading, wRiting e aRitmentic (il nostro “leggere, scrivere e far di conto”) alle tre X (eXploration, eXpression, eXchange). È chiaro che nessuno oggi può immaginare quali potranno essere le professioni tra venti o trenta anni, ma è abbastanza facile pensare che per entrare nel mondo del lavoro saranno sempre più importanti le competenze richieste per partecipare alla società della conoscenza. Gli stessi obiettivi di Lisbona per la UE e le competenze chiave evidenziano questo intreccio. Le ICT si portano dentro quindi non solo e non tanto un impatto strumentale nella scuola, le risposte alla domanda se le tecnologie siano o no utili per imparare meglio sono mal poste: la dimensione della trasformazione è ben più radicale e ampia.
La scuola e gli insegnanti che rappresentano in tutti i paesi l’aspetto più importante, la risorsa, il capitale più prezioso, sono anche l’elemento di maggior resistenza al cambiamento.
“Il lavoro principale per gli insegnanti è insegnare. Poco o pochissimo tempo può essere dedicato all’apprendimento (si potrebbe dire alla formazione continua, a guardarsi intorno).
Questo aspetto insieme alle continue pressioni, emergenze, scadenze alle quali è sottoposto oggi un insegnante, rappresenta l’ostacolo maggiore al cambiamento, la barriera maggiore
all’adozione di nuove modalità di integrazione delle ICT nell’educazione”.

Frances Fuller e G.E. Hall hanno condotto studi sulle preoccupazioni degli insegnanti nei confronti dell’innovazione, che sono sfociati nello sviluppo di teorie sul cambiamento. La ricerca di Fuller ha mostrato come gli insegnanti siano preoccupati della propria identità, dei propri compiti e dell’impatto del cambiamento. Hall, Wallace e Dosset hanno analizzato le tre fasi di preoccupazione presenti nel momento in cui gli insegnanti affrontano l’implementazione di innovazioni. Il loro lavoro è sfociato nel modello CBAM (Concerns Base Adoption Model). La teoria afferma che una serie di preoccupazioni caratteristiche, comuni alla maggior parte delle innovazioni, emerge durante il processo di cambiamento. I risultanti Stages of Concern Questionnaire (SoCQ) sono stati spesso utilizzati con successo dall’iniziale formulazione e continuano ad avere intenso seguito nella letteratura. L’ipotesi di Hall indica sette gradi di preoccupazione, che gli individui manifestano e attraversano quando qualcosa di nuovo è introdotto nel loro ambiente. I livelli riguardano nell’ordine: la Consapevolezza, l’Informazione, la preoccupazione Personale, la Gestione, la valutazione della Conseguenza, la Collaborazione, il Riposizionamento.

Gli insegnanti non sempre seguono la progressione teorica, per molte ragioni. Queste fasi non implicano dunque una progressione lineare. Ma la ricerca mostra, comunque come, tipicamente gli insegnanti avranno molteplici preoccupazioni in un dato momento. Spesso i docenti mostrano, infatti, una combinazione di preoccupazioni riflesse in due o più fasi, che sono relativamente più intense.

Liberamente tratto da Giovanni Biondi, La scuola dopo le nuove tecnologie, Apogeo Milano 2007 (in corso di pubblicazione), per gentile concessione dell'editore Apogeo. 

 

 
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