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INIZIATIVE PER LA SCUOLA

"Le parole per dirlo"

Una conversazione con gli Euroactors sui temi dell’Europa e i valori condivisi, le tecnologie per la didattica e le sfide del terzo millennio

di Antonio Piscitelli
22 Marzo 2007

Antonio Piscitelli è Professore presso l'Istituto ITIS "Carlo Emilio Gadda" di Napoli. Gli Euroactors sono nati dalla partecipazione della classe al Progetto Comenius.

Sono le cinque del pomeriggio. Stiamo qui a scuola da stamattina alle otto. Gli Euroactors, che prendono il nome da un Comenius, sono ancora con me e con i colleghi che lavorano al progetto. Non mollano, sembrano tutt’altro che ansiosi di ritornare a casa. Gli ho annunciato un’intervista che il dott. Francesco Vettori dell’ANSAS mi ha chiesto di realizzare. Vogliono dire la loro, vogliono far sentire la loro voce di cittadini europei attivi e consapevoli.
Sì, ora lo sono diventati tutti, grazie alle numerose attività internazionali alle quali l’I.T.I.S. “Gadda” aderisce.
Questi ragazzi proiettano i loro sentimenti sull’intera città. Quando gli chiedo come si vede l’Europa da Napoli, mi rispondono, quasi all’unisono, che i napoletani sono assai vicini all’Europa. Io so che non è vero, ma loro così pensano, non per spirito di emulazione o per piaggeria, ma perché ne sono convinti. Anche questo so, per le lunghe ore che ho passato con loro! Si sentono europei e, in virtù di quel pizzico di egocentrismo che caratterizza la visione del mondo degli adolescenti, affermano che Napoli è dentro l’Europa, non in senso geografico evidentemente.
No, penso, una fetta consistente della città non è Europa, quella della criminalità organizzata, delle estorsioni e delle rapine, quella dell’usura, dello spaccio di droga, degli efferati omicidi che quasi quotidianamente occupano le pagine di cronaca nera: per rapina, per vendette trasversali, per guerre tra clan, ma anche per gioco, sì per gioco, per vedere come funziona la pistola regalata dal “padrino” il giorno della prima comunione o della cresima. Pare che un kalashnikov, qui a Napoli, sia alla portata di ogni portafoglio. «Agli istituti di ricerca economica internazionale – scrive Roberto Saviano – servono continuamente dati. … Per valutare lo stato dei diritti umani … gli analisti osservano il prezzo a cui viene venduto il kalashnikov. Meno costoso è il mitra, più i diritti umani sono violati, lo Stato di diritto è una cancrena, l’ossatura degli equilibri sociali è marcia e in disfacimento.» (Roberto Saviano, Gomorra, Mondadori, 2006, p. 199).
Violazione dei diritti umani, cancrena dello Stato di diritto! Ecco cos’è una fetta consistente di questa città, cosa sono alcuni quartieri periferici, alcuni paesi della provincia.
Gli Euroactors, che fino a ieri non sapevano che questo della città, ora ne conoscono la storia, conoscono i flussi di cultura che la legano all’Europa, sanno di diritti umani (hanno quasi mandato a memoria la carta di Nizza), sanno, lo sanno davvero, cos’è uno Stato di diritto. Vivono momenti felici di cittadinanza attiva e consapevole, esprimono in pubblico le loro opinioni, sentono il bisogno di essere dentro la polis e di contare, sentono e vivono il diritto di cittadinanza.
«Napoli è la città della diversità. – afferma Giuseppe Rosario Esposito, lo studente la cui lettera ai giornali ha suscitato un certo scalpore – Pensi alle numerose dominazioni straniere: Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli, Austriaci, Francesi. Pensi alle numerose comunità di mercanti presenti per secoli nella nostra città: Catalani, Pisani, Genovesi, Fiorentini. Pensi ai recenti immigrati extracomunitari, che lei può vedere lavorare nei mercati, nei negozi, nelle imprese edili, nelle fabbriche della provincia. Parlano il napoletano, non l’italiano, e la gente li percepisce come membri della comunità. Il motto “Unita nella diversità”, se è valido per l’Europa, è tanto più valido per Napoli. La nostra città è un contenitore di diversità da sempre. Per me l’Europa è appena fuori la porta di casa, basta che le apriamo». «Come? Qual è la chiave che apre la porta?», gli chiedo. Non esita: «La cultura, professore, la scuola, i nostri insegnanti».
Gli fa eco Angelo Forino, sia pure con una nota un tantino critica: «Io distinguerei tra una Napoli Europea ed una Napoli gretta, prigioniera dell’ignoranza. L’immagine che i media danno della nostra città non è delle più lusinghiere. Talvolta essi dimenticano i grandi contributi che anche la nostra città ha dato e dà all’identità europea, con i suoi intellettuali, i suoi filosofi, i suoi artisti, i suoi scienziati, i suoi giornalisti, i suoi giovani. Anch’io sono napoletano, sono giovane e mi sento europeo. Mi dispiace se qualcuno mi accusa di non esserlo a sufficienza». Mi sorge spontanea la domanda: «Da quanto ti senti cittadino europeo?». Sorride con aria di sufficienza, come se gli avessi fatto la più stupida delle domande. «Da quando la scuola – dice – mi ha spiegato cos’è l’Europa. Due anni fa partecipai ad un Convegno sul Trattano Costituzionale a Firenze. Il dibattito mi appassionò. Questo è proseguito qui, a scuola. L’ho seguito non per mera curiosità, ma perché ho sentito legittimati i valori che mi portavo dentro. Vede, a me piace studiare la storia. Io mi percepisco come un prodotto della storia. Se sono un ragazzo del terzo millennio, lo sono anche perché ci sono stati un primo ed un secondo millennio. Le generazioni che mi hanno preceduto hanno lasciato in me una traccia indelebile, almeno sul fronte dei valori che esse hanno elaborato e che io ho imparato a condividere. Come vede, c’entra sempre la scuola, la sua centralità nella vita di ogni adolescente».
Com’è cresciuto Angelo! Due anni fa era un ragazzino confuso non solo nelle idee, ma anche nelle parole per dirle. Ricordo quanto inciampasse di continuo negli arzigogoli della sintassi, intervistato da un giornalista della Rai in occasione del convegno toscano di cui parla: tremava ed arrossiva dinanzi ai microfoni. Ora parla con pacatezza, espone con disinvoltura concetti maturi. È bello sentirlo.
Professionale, invece, nel suo intervento è Daniele Cangiano, un ragazzo incredibile per l’affidabilità che manifesta in ogni circostanza: puntuale agli incontri, sollecito nei compiti che gli sono affidati, solerte nei carichi che si assume. C’è una foto sulla home page del sito degli Euroactors che lo ritrae mentre parla al ministro Fioroni. La foto è stata scattata lo scorso novembre all’Exposcuola di Salerno. Fu protagonista e vittima di un increscioso incidente, del quale preferisco tacere, per non offendere “anime privilegiate”. Ne uscì a testa alta, dando una lezione di dignità anche a noi adulti presenti.
La preside Maddalena Lazzarotto del liceo “Brocchi” di Bassano del Grappa, allora mi disse, col piglio materno e protettivo che le è congeniale: «Antonio, come sta crescendo bene Daniele!». Sì, Daniele è cresciuto anche con la rete tematica nazionale “Educare all’Europa”, una rete di oltre venti scuole che la Lazzarotto ha coordinato con amabilità e perizia. Durante il primo anno di attività della rete questa dirigente ha incontrato, in più occasioni, ragazzi provenienti da varie scuole del paese ed ha avuto modo di vedere spesso Daniele. Ne sembra fiera, come ne sembrano fieri insegnanti e dirigenti della rete. Naturale! Daniele è cresciuto con gli “Obiettivi di Lisbona”, con le attività che lo hanno visto coinvolto in prima fila a dibattere e divulgare i temi della campagna nazionale di informazione e sensibilizzazione su “Istruzione e formazione 2010”. Dice sempre che è orgoglioso dell’opportunità che gli abbiamo dato di maturare un’esperienza che lui giudica “fondamentale”.

Per lui l’identità europea non è una questione geografica, ma generazionale. I giovani sono più informati degli adulti, i giovani vanno maturando un maggiore senso di appartenenza alla polis europea perché ne sono educati a scuola. «I nostri padri  e le nostre madri – riflette – non hanno avuto le medesime nostre opportunità. All’epoca in cui loro andavano a scuola non esistevano i programmi Socrates, gli studenti non avevano la possibilità di fare esperienze di studio in altri paesi. Ora queste cose ci sono, oggi in molte scuole si parla e si discute di Unione Europea. Le prospettive che questa apre a noi sono tante e noi sapremo approfittarne. Saremo noi giovani a trasmettere alle future generazioni i valori condivisi dell’Europa, il sentimento dei comuni diritti di cittadinanza».
Il caso ha voluto che spesso Daniele si sia trovato ad illustrare i temi della strategia di Lisbona in pubblico: ne ha maturato un piglio da relatore navigato che lo fa apparire più adulto di quanto non sia. Ma non tutti sanno quanto, per lui, il valore della solidarietà, sul quale molti dei miei giovani intervistati insistono, anteponendolo ad altri a cui la scuola pure deve educare, non è solo un’enunciazione verbale, ma pratica quotidiana. Lo vedete darsi da fare per i compagni più deboli, per quelli che hanno difficoltà di apprendimento, con pazienza, senza mai affettare superiorità o superbia per la sua intelligenza. Mi ricorda i “grandi” che don Milani utilizzava per insegnare ai “piccoli”: un bell’esempio di scuola integrata! Il suo comportamento ha suggerito al “Gadda” di utilizzare i grandi quali tutor delle nuove leve. Ora i più giovani nutrono una rispettosa ammirazione nei confronti di Daniele e dei suoi compagni. Me lo confessa M***, uno dei più giovani Euroactors, quando afferma che l’esperienza del Comenius gli ha consentito di fare amicizia con Giuseppe, Daniele, Angelo, i ragazzi di quinta che lui ammira.
M*** è un “diverso”: è lui a usare questa parola nel corso della conversazione. Rivendica il suo diritto di cittadinanza in un’Europa il cui motto è “Unita nella diversità”. Quando il discorso cade, per caso, sull’alto numero di dislessici nel nostro paese, lui annuisce affermando di conoscerne almeno uno. Allude a se stesso. Sempre presente agli incontri pomeridiani degli Euroactors, mi confida che ha due modi differenti di percepire l’Europa: con gli Euroactors e senza Euroactors. Per lui, in città non ci sono i suoi compagni di avventura e dunque non c’è Europa. A scuola l’Europa c’è! Lui preferisce stare a scuola.
So cosa intende dire. So anche quanto sia importante per noi farlo sentire dentro la scuola e, dunque, “dentro l’Europa”. Dice, continuando il suo discorso, che la diversità è una risorsa; lo dice con un argomento che a me sembra sottile, oltre che sapiente: «Che senso avrebbe mirare all’uguaglianza tra uguali. L’uguaglianza si può realizzare tra diversi». «Cos’è l’uguaglianza per te?», gli domando. «Avere tutti le stesse possibilità di imparare», risponde secco.
M*** è stato mio studente. Ero convinto e sono convinto che sia una risorsa. Ma che fatica farlo capire al mondo! Dopo il biennio, vuole studiare domotica, la specializzazione all’avanguardia da poco introdotta nella nostra scuola. «Perché – gli chiedo – proprio domotica?». «Vede – mi confida – molti pensano che la casa automatica sia un lusso per ricchi. Non è così. Le nuove tecnologie, che qui a scuola ci hanno mostrato, in realtà sono un prezioso servizio per i diversamente abili. Si chiamano tecnologie amiche, per il loro semplice utilizzo. Possono facilmente imparare ad usarle i disabili, gli anziani. Leniscono la pena di dover sempre dipendere dall’assistenza altrui. A me piacerebbe lavorare in un settore produttivo che serve anche alle persone che soffrono. Non lavorerei solo per guadagnarmi da vivere, ma anche per aiutare gli altri».
Il discorso di M*** dà la stura al dibattito sulle tecnologie. Tutti ne riconoscono l’utilità, dichiarando che, nel settore informatico e delle telecomunicazioni, sono la marca distintiva del terzo millennio. Essere nel millennio significa questo, avere a disposizione tecnologie che, agli occhi delle passate generazioni, sarebbero parse pura fantascienza. «Mio padre e mio nonno mi ripetono sempre che la loro scuola era povera. Il nonno dice che lui non usava neppure la biro», sono le parole di Luigi Nicoletti. «Servono all’apprendimento?», la butto lì, intuendo la risposta affermativa scontata, date le premesse. Antonio Fuorto, Pasquale Sepe e Vincenzo Fucile ne lamentano la carenza nelle scuole. «I laboratori – dice Antonio – sono una prerogativa solo dei tecnici e dei professionali. Ma, anche in questo caso, non sempre sono sufficienti a soddisfare le effettive necessità». Per Pasquale la scuola dovrebbe essere un solo grande laboratorio. Nei laboratori, a suo dire, si impara molto di più e assai più rapidamente che dalla voce dell’insegnante. Vincenzo confessa che, alla quinta ora di lezione, dopo averne passate altre quattro chiuso in un’aula, gli si chiudono gli occhi. Quando alle ultime ore gli capitano i laboratori, riesce ad essere attento, perché deve manovrare dei macchinari, ha qualcosa da fare e non deve solo ascoltare.
«Ecco, vede – aggiunge Dario Ricciardella – queste attività pomeridiane che noi svolgiamo per realizzare il Comenius sono una specie di laboratorio. Non solo perché usiamo il computer ed il videoproiettore, ma perché qui siamo noi a dover parlare, proporre, discutere e produrre. Facciamo delle cose che ci costringono a stare svegli. Non puoi fare, se dormi!»
Stanno parlando della scuola agita, non subita. Questi ragazzi hanno le idee assai più chiare di noi insegnanti. Francesco Montieri pensa che lo Stato investa poco in laboratori: «Tra gli interventi che ho letto sul forum che abbiamo moderato lo scorso ottobre, molti ragazzi addirittura lamentavano la mancanza di una palestra nella loro scuola, anche se altri si dicevano soddisfatti del patrimonio tecnologico dei loro plessi. Evidentemente ci sono due tipi di scuola nel nostro paese. Occorrerebbe saperlo ed intervenire. Se lo Stato crea un ministero delle pari opportunità, dovrebbe sapere che le pari opportunità vanno garantite anche agli studenti, a partire dalle tecnologie per la didattica».
Si è fatto tardi, temo che le pile del  mio registratore vocale si scarichino; intanto loro continuano a parlare. A quest’ora, i loro genitori saranno in pensiero.
Provo a chiudere il dibattito con un’ultima richiesta: «Mi dite almeno un valore che, secondo voi, la scuola dovrebbe insegnare a condividere?»
La solidarietà! La giustizia! La tolleranza! La legalità! L’educazione!... Quest’ultima è di Luigi Nicoletti. Che vuol dire? «Lui intende il rispetto di regole condivise», interpreta Francesco, suo amico e sodale. Lo avevo intuito, sempre devo dare consistenza agli iperonimi di Luigi. Lui ha un vocabolario assai ridotto. Prima di rispondere alle domande, si è scritto le risposte, con l’aiuto della mia collega, Mariarosaria Lalli.
Ma non è il solo a impuntarsi, a impigliarsi nella sintassi, a incespicare sulle doppie. Questi, per certi aspetti, sono ancora i ragazzi di Barbiana. Eppure don Milani fece loro scrivere un libro, senza perdersi d’animo, armato di pazienza, tenacia e vocabolario. Io, che sono testardo per natura, gli tolgo le reti di protezione, li costringo a dire, in pubblico, ad alta voce. Formalizziamo i discorsi insieme, facciamo le prove prima di affrontare l’arena; così imparano a dare ordine alle parole, ad aggiungere un doblone verbale al loro forziere lessicale.
Nel forum che La Repubblica ha aperto intorno alla lettera di Giuseppe, il pinzochero di turno ha gridato allo scandalo per un accento mancante (pare fosse un refuso). Questa è la scuola che c’è? Quella che produce i somari?
Padre, perdona loro che non sanno quello che dicono! Non sanno cosa sia questa città, cosa sia insegnare in certi quartieri, contro quali rischi e pericoli la scuola deve proteggere i nostri ragazzi. E lo fa con assoluta umiltà, in assoluto silenzio, tutti i giorni, senza clamore, senza fare notizia. No, non fa notizia dare voce all’afasia! Per il nostro bacchettone, la normalità non fa notizia.
Noi normali ci sentiamo e non intendiamo fare notizia, neppure Giuseppe che ci ha provato. Siamo tanto normali che diamo la vista ai ciechi, la parola ai muti, ciechi e muti non per disgrazia di natura, ma per l’insipienza e l’indifferenza degli uomini. Allora, nella loro normalità, i muti di questa città si stanno sforzando di tirar fuori la voce, di saccheggiare a piene mani un vocabolario loro negato per pregiudizio. La fatica è grande, il vocabolario è un pozzo senza fondo. Poi, le parole le trovano, per dire quello che sono, quello che pensano, quello che sono diventati, anche grazie alla scuola. Per essere anche loro, che una certa opinione diffusa vorrebbe relegati al medioevo dei valori, protagonisti della Storia, attori vivi del terzo millennio, per dire la loro voglia di vivere e di contare: nella scuola, nel quartiere, nella città, nel paese, in Europa, nel mondo!
Ci sono due modi per essere protagonisti del mondo dell’informazione: “far parlare di sé” e “parlare di sé”. Bene, questi normalissimi ragazzi hanno deciso di parlare di sé. Sono Euroattori anche per questo!

    


 

 
 
   

 
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