di Alessandra Anichini
13 Maggio 2007
Non è un video, non è una semplice sequenza di diapositive. E’ il tentativo di mixare una serie di codici espressivi e di tecniche, accostando parole scritte, sonoro, immagini e assemblandoli tramite l’uso di semplici transizioni. Questo nuovo tipo di testualità si sta affermando come un inedito modo di raccontare. Oggi la tecnica risulta molto utilizzata soprattutto in ambito giornalistico per realizzare veri e propri reportage o narrare storie il cui tema è prevalentemente di carattere sociale. Ne sono chiara testimonianza alcuni esempi che è possibile reperire sulla Rete. Segnaliamo a scopo esemplificativo un pezzo dal titolo Deeds of discrimination, una sorta di narrazione/testimonianza per immagini e speakerato ; oppure un reportage giornalistico completo sul tema di un disastro ambientale; o ancora le slide di immagini fotografiche sulla guerra in Kosovo; infine un testo realizzato da Brenda Ann Kenneally dell’Università di Miami, dal titolo “Money, Power & Respect”. I casi segnalati sono tutti chiaramente ascrivibili ad un uso tutto professionale del nuovo linguaggio, praticato da giornalisti e fotografi esperti. A questo si affianca, tuttavia, un uso più personale di questa nuova tecnica e il ‘digital storytelling’, così lo chiamano gli americani, diventa soprattutto un modo per raccontarsi in termini autobiografici, fermare frammenti di memoria, viaggi, eventi e quanto altro. Ci sono anche numerose scuole che offrono corsi in cui si impara a sviluppare storie, ma la scrittura creativa non si limita in questo caso alle sole parole, insegna anche ad utilizzare l’intera gamma dei codici espressivi. Il Center of Digital Story Telling è uno dei più noti ed organizza workshop in presenza, oltre ad offrire un ricco archivio di materiali in Rete. In Europa il più noto è presente nel Regno Unito, ma se ne può facilmente immaginare uno sviluppo crescente in altri paesi.
Questo tipo di testualità, vicina al video, giocata soprattutto sull’immagine, ma anche sull’audio, dove comunque la parola scritta trova un suo preciso ruolo, appartiene al genere multimediale (anche se non è forse lecito parlare di genere). Multimedialità è una parola in uso ormai da più di dieci anni, utilizzata sostanzialmente secondo due accezioni: la più accreditata, che denuncia anche la sua origine, è quella che la definisce come una modalità comunicativa in cui si fa uso di una molteplicità di media. Le prime rappresentazioni multimediali erano presentazioni d’azienda in cui si faceva uso di varia strumentazione, tra cui la voce umana che accompagnava, come commento, immagini proiettate, grafici ecc. in qualche caso con una musica di sottofondo. Per estensione il termine multimedia viene oggi utilizzato nel senso di ‘pluralità di codici utilizzati’, multicodale sarebbe l’espressione più appropriata, riferita ad una testualità che fonde più codici espressivi, combina la voce con la parola scritta, con l’immagine fissa e in movimento. Parola abusata, ormai quasi fuori moda, anche se ancora non del tutto compresa, la multimedialità sta così affermandosi in questa nuova modalità espressiva, che raggiunge oggi risultati significativi da un punto di vista qualitativo. La multimedialità ha fatto il suo ingresso a scuola in una forma tutta particolare. Tramite l’uso di ipertesti, chiamati poi ipermedia proprio in virtù della loro natura multimediale. Gli ipertesti, tuttavia, propongono una particolare logica multimediale, ovvero parlano sostanzialmente un linguaggio di un certo tipo che prevede la giustapposizione dei diversi codici, piuttosto che la loro integrazione sinergica. I Learning Object, poi, hanno ereditato in parte queste caratteristiche comunicative. L’idea è quella di fornire informazione nella maniera più completa possibile, utilizzando tutte le modalità comunicative che il supporto digitale può mettere a disposizione. Se si studia una regione dunque, è importante mostrare la cartina, inserire un filmato che riprende la vita in quel territorio, riportare dati per iscritto, e corredare il tutto con la testimonianza di un abitante, magari sotto forma di intervista. La logica è quella di un collage di ‘occasioni percettive’ che dovrebbero, unite, garantire un maggior grado di apprendimento. Una serie di teorie psicologiche, tra cui spicca la più conosciuta Teoria della percezione multimediale di Meyer, sono state formulate a sostegno della tesi che la combinazione dei codici potesse favorire l’apprendimento, o, almeno facilitasse la memorizzazione delle informazioni fornite. Ben vengano dunque i testi multimediali poiché agevolano la comprensione e rispondono anche a quella pluralità di intelligenze di cui Gardner ha suggerito l’esistenza. Senza scomodare la psicologia contemporanea, tuttavia, basterebbe pensare a quanto spazio, nella nostra più antica tradizione, abbia avuto la multimedialità nei processi di comprensione, o anche di persuasione, messi in atto nei contesti più svariati. Basterebbe pensare a tutta la tradizione manoscritta, così attenta agli aspetti visivi del testo scritto e al copioso uso delle immagini come significativo compendio alla lettura; basterebbe richiamare alla mente le modalità con cui i predicatori medioevali utilizzavano le immagini raffigurate sulle pareti delle chiese per ‘illustrare’ ciò che la loro enfasi comunicava, un’abitudine ripresa dai cantastorie ambulanti, veri e propri strateghi della comunicazione multimediale. Ben venga dunque la logica della ridondanza, a patto che non sia confusa con una banalizzazione espressiva, spesso foriera di cattive pratiche comunicative. La scommessa contemporanea consiste, in misura maggiore nella scuola che detiene per diritto il compito di educare all’uso del linguaggio, nel non cadere in un uso banalizzato del rapporto tra i diversi codici. Scrivere la parola ‘alba’ e unirvi la foto di un cielo rosato, con una musica appena accennata, non basta a risolvere il problema dell’espressione oggi. Questo è solo uno dei modi con cui i testi alfabetici possono essere valorizzati tramite l’aggiunta di altri codici. Ma esiste altro. Per questo crediamo che lavorare su questi moderni mix, sulle tecniche di espressione nuove, quelle del digitale, possa rappresentare un raffinato lavoro di analisi dei nuovi linguaggi, alla ricerca dei quelle grammatiche espressive sottese ad ogni forma comunicativa che si rispetti. Il digital storytelling insegna a scrivere in una maniera nuova, utilizzando, come dicevamo una pluralità di codici e sforzandosi di suggerire l’idea di una sperimentazione creativa del linguaggio. Insegna inoltre un’altra cosa assai importante: il ricorso a una doppia fase della scrittura, quella della progettazione del testo, la sua sceneggiatura, e quella della stesura vera e propria. Abitua all’idea che un testo è il frutto di un lavoro articolato e complesso, che niente lascia al caso, ma dosa in maniera sapiente e raffinata ingredienti e procedure. Di questo, dunque, ci sembra che la scuola abbia oggi bisogno, proprio in nome di quella ricerca di qualità che troppe volte viene, chissà perché, dimenticata. Per concludere si rinvia ad un esempio di scrittura multimediale realizzata da giovani artisti, uniti dalla passione di lavorare su un tema comune.
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