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Una leadership educativa nella crisi dei legami comunitari

Cultura, valori e competenze del dirigente scolastico nella gestione della scuola moderna

di Mauro Di Grazia
23 Aprile 2007

Con quale bagaglio di cultura e competenze, con quale deontologia professionale e valori di riferimento può oggi un dirigente scolastico affrontare la tremenda complessità della scuola, di una qualsiasi scuola in cui sia impegnato, in ogni angolo del nostro paese  o, se questo può confortare, dell’intero civile Occidente?

La crisi della scuola, in particolare della scuola media e superiore, percorre tutti i paesi democratici, anche se da noi si esprime in forme più stridenti e contraddittorie – visto la persistenza  di un approccio culturale e metodologico tradizionale e obsoleto. In Europa gli indicatori più evidenti della crisi sono la crescita dell’assenteismo studentesco a partire dai 12/13 anni, accanto all’incremento degli abbandoni scolastici e, parallelamente, il dilagare di condotte trasgressive, con zone delinquenziali, che hanno indotto, ad esempio, il governo inglese a misure drastiche di intervento preventivo e repressivo. E’ difficile convincere uomini di scuola che la crisi è il portato della globalizzazione e della pervasività dei suoi strumenti: eppure è così e la prima operazione di igiene mentale da compiere è convincersi che lo scenario in cui le vecchie generazioni sono cresciute e si sono formate è radicalmente cambiato e sono necessari altri parametri interpretativi del mondo e di analisi del sistema educativo.
Che senso dare alle sequenze da “Arancia Meccanica”, che vedono protagonisti giovani studenti sul palcoscenico scolastico e che carambolano in tempo reale sui nuovi media, generando sgomento nell’opinione pubblica?
Le maleducazioni, l’uso di droghe, i vandalismi, la violenza, la pornografia mediatizzata, le condotte delinquenziali hanno varcato i muri sacri dell’edificio scolastico e sono presenti nei corridoi e nelle aule e dilagano, nella complicità o nella passività dei coetanei.
Il primo compito di un dirigente è quello di capire, ancor prima che di agire.
E allora, in primo luogo, la consapevolezza culturale di vivere in un’epoca globale, dove lo “sbattere delle ali di una farfalla a Singapore” può avere riflessi in una scuola italiana di montagna, non è cosa da poco e va coltivata con letture, approfondimenti e buona informazione su quanto avviene nel mondo, magari anche con una opportuna formazione a dirigenti e docenti impartita da un governo illuminato, consapevole a sua volta della crisi del sistema scolastico. Conoscere lo scenario non ci salva dai rischi, ma fornisce alla nostra umana finitezza ancore e appigli e forse ci aiuta a controllare il nostro senso di sgomento e naufragio.
In secondo luogo la consapevolezza deve allargarsi alla comprensione delle dinamiche del mondo giovanile. Non c’è da meravigliarsi se gli adolescenti attraversano momenti più o meno lunghi di trasgressione: è sempre stato così. I neurobiologi ci spiegano che la propensione adolescenziale a correre rischi fa parte dei rituali inevitabili di passaggio ad un’età adulta sempre più lontana. Il Sessantotto, prima che un fatto sociologico, fu un fatto generazionale. Il problema, come osserva acutamente Edgar Morin in una intervista recente, è che “la trasgressione è oggi più grave, specie in situazioni particolari, con famiglie disintegrate, genitori separati o disoccupati. Per i giovani non ci sono certezze sul futuro. Davanti a loro c’è disoccupazione e nessuno – meno che mai la scuola – risponde alle loro domande: perché sono al mondo? Chi sono? Dove vado?. La scuola non insegna come affrontare l’incertezza, non dice che viviamo in un’epoca globale. La scuola offre solo una frammentazione dei saperi e uccide la curiosità. Stiamo vivendo una crisi epocale, la società si sta disintegrando. E nei momenti specifici di crisi gli adolescenti sono l’anello debole della società, quello dove la crisi si avverte prima. C’è una generale mancanza di senso e dunque quella degli adolescenti è una crisi nella crisi”. 
Difficile confutare le affermazioni drastiche, lucide e pessimistiche di Morin. Anzi dovremmo aggiungere, come ci insegna l’esperienza, che a riempire il vuoto giovanile interviene con abbondanza di mezzi la “cattiva maestra televisione”, che elargisce a man bassa coi suoi programmi (“quantità spaventosa di schifezze”, come le definisce Marco Lodoli) la base etica della prepotenza. Così che i cellulari, tramite internet, possono rivelare al mondo il tremendo connubio fra carnefici-bulli e vittime più o meno consenzienti, di fronte ad una platea anonima (audience), che gradisce lo show e tributa la fama agli attori dello spettacolo. Tutte le inchieste condotte in merito ai comportamenti bullistici, ne rivelano la finalità di cattura dell’ammirazione altrui, intento che maschera la volontà di uscire dalla massa amorfa, dalla sensazione di non essere e non valere nulla.
E dovremmo anche tener conto di un altro fenomeno emergente, che ha drasticamente abbassato l’età dell’innocenza. Bollea l’ha chiamato  “adultismo anticipato”, per cui un ragazzo di 13 anni oggi riceve dall’esterno – via nuovi media o direttamente – tutti gli input che riceve un adulto, senza alcuna mediazione familiare, senza filtri o censure e in assenza di maturità critica: con gravi difficoltà di elaborazione culturale e soprattutto emotiva, con la conseguenza dell’affermarsi di una condizione di auto-referenzialità personale ed emotiva, per cui risulta difficile il riconoscimento stesso e il rispetto dell’altro.

Allargando lo sguardo, gli esperti puntano il dito sulla famiglia e sulla scuola: le famiglie che non conoscono i propri figli, ignare delle loro condotte, tenute fuori dal gioco perverso dei ragazzi e ben disposte a esserne private, pronte a smorzare e rimuovere, per non soccombere al terrore per le sorti della prole e all’angoscia del conclamato fallimento educativo. Qualcuno l’ha acutamente definita l’”eclisse degli adulti”: assenti, opachi, smarriti, lontani da ogni impegno educativo, quando non proni a seguire le improbabili giustificazioni adolescenziali e pronti a dar battaglia, contro ogni ragionevole dubbio, a difesa dell’innocenza filiale. Da non trascurare, poi, che la solidità e l’unità delle famiglie è fortemente compromessa, ancora sotto la spinta della globalizzazione, da processi inarrestabili di modificazione degli stili di vita delle persone e di partecipazione alle attività economiche: giovani e adulti vivono in mondi separati e diversi. Oltre che per crisi di valori, la possibilità e la continuità stessa educativa della famiglia risulta gravemente incrinata.
Anche la scuola è afferrata e stravolta da analoghi atteggiamenti ambigui, a fronte delle devianze giovanili. E ora  si perde dietro improbabili declamazioni di salvezza (“in casa mia non succede”), ora appare disposta a buttarla sulla ragazzata, ora è prona a lasciar correre, ora, molto più raramente, si scopre reattiva, magari in forme passatiste ed stranianti. Eppure la scuola – e le persone che la compongono, dai membri della leadership ai singoli insegnanti, dai bidelli al personale di segreteria – è fortemente interpellata in questa palpabile emergenza. Nell’età della crisi adolescenziale, quando il distacco dalla famiglia assume una connotazione di crescita psico-sociale, la ricerca di punti di riferimento adulti, ma lontani dal ruolo parentale, resta una domanda costante e dovrebbe indurre a lavorare sulla relazione allievi/insegnanti per far crescere il dialogo e l’ascolto. Ma questo approccio, ove sia tentato, rischia l’italico mammismo e può produrre effetti reattivi di rifiuto e di incentivazione del nichilismo. Il burn-out degli insegnanti è l’esplicitazione, prima che di una sconfitta, di una chiusura, di una impossibilità di affrontare in solitudine un’esperienza professionale totalizzante come quella dell’insegnamento.

Dice Morin che dove la società è coesa le cose vanno meglio. E allora c’è da chiedersi quanto siano coese le nostre comunità, quelle delle grandi o piccole città. Le fondamenta culturali dell’Europa pongono l’accento sulla coesione sociale e l’inclusione come valori, principi costitutivi e criteri ispiratori delle politiche. Ma, a fronte della globalizzazione, le comunità locali sono tutte messe in discussione, in termini di identità e di unità interna, sono percorse – ove più, ove meno – da  crescenti incrinature, di cui il segno più evidente è, accanto alle conseguenze dell’immigrazione, il diffondersi di comportamenti giovanili nichilisti, che sempre più arrivano a tingersi di vecchie ideologie fondate sull’etica della prepotenza e sul culto della forza. Nell’analisi, dunque, la crisi della famiglia e della scuola non può non allargarsi a quella delle comunità locali, che hanno perso o stanno perdendo la spinta antropologica originaria di comunità educanti.

Torniamo dunque alla domanda iniziale sul bagaglio di cultura, competenze, deontologia professionale e valori di riferimento di un dirigente scolastico che oggi affronti questa complessità. E facciamolo sulla scorta di una riflessione sul suo ruolo e chiedendoci quale sia la sua specificità. Egli è leader di una organizzazione che fa parte del sistema educativo generale del paese. Deve certo saper gestire e organizzare risorse umane e materiali, deve dunque possedere una cultura manageriale. Ma, se al manager moderno, oltre che capacità di gestione, si richiede oggi profonda cultura e ricca creatività, tanto più al dirigente di una scuola si chiede di essere leader educativo e, in quanto tale, punto di riferimento sul territorio, come espressione di una organizzazione che dell’educazione comunitaria è un perno, al pari delle famiglie, delle associazioni, del volontariato, come delle parrocchie o dei circoli ricreativi. La proposta non è velleitaria, ma nasce dai bisogni profondi di comunità in crisi, nelle quali le autorità locali dovranno prima o poi chiamare a raccolta le forze vive della società per reagire alla deriva di sgretolamento in atto. Alcune realtà già lo stanno facendo in giro per l’Europa. E la scuola, in questo contesto, e non da sola, dovrà portare il suo contributo specialistico di soggetto educativo e formativo.

Tutte le ricerche internazionali sulla qualità nella formazione convengono sul fatto che una leadership eccellente è un fattore abilitante dei buoni risultati di una organizzazione formativa. Ovviamente la leadership non va intesa in senso personalistico: le scuole più innovative, in questi anni difficili per il sistema scolastico, hanno lavorato ad una indispensabile diffusione delle responsabilità e quindi alla costruzione di una leadership diffusa. In essa il ruolo del dirigente – la sua presenza nei momenti decisivi, il suo esempio, il suo coinvolgimento - resta elemento motore di promozione e di innovazione. In assenza di questo fattore dinamicizzante tutti i problemi di una organizzazione formativa trovano difficoltà di soluzione e a questa regola non sfugge tutta la tematica dell’educazione dei comportamenti giovanili, vale a dire l’educazione alla cittadinanza, alla consapevolezza dei diritti e doveri.

Se rileggiamo nell’ottica dei “modelli di eccellenza” la problematica educativa che stiamo affrontando, dovremo chiedere ai leader della scuola, guidati dal dirigente, di definire (o ridefinire), con grande coinvolgimento di tutte le parti interessate – dai genitori, ai docenti, ai bidelli  - la missione e la visione, avendo ben chiaro il contesto nuovo in cui si muovono, interpretandone e anticipandone i bisogni educativi. E soprattutto i dirigenti dovranno rendere espliciti e condivisi etica e valori di riferimento della scuola, non in forma predicatoria, ma integrandoli nel loro comportamento, essendo essi stessi esempio di rigoroso rispetto dei valori accreditati. Costruiranno col personale il codice deontologico delle professionalità interne e con gli studenti e i genitori le regole fondamentale della convivenza civile, utilizzando le indicazioni aperte dello Statuto degli studenti. Scacceranno da sé il facile pensiero che una applicazione rigida delle regole rappresenti la soluzione del problema: la scuola moderna non può essere gestita come uno stato di polizia, ma deve aiutare i ragazzi, responsabilizzarli, far crescere in loro la spinta morale naturale, favorire l’approfondimento della coscienza morale, anche col senso di colpa e col rimprovero, proponendo il recupero della sacralità degli spazi di apprendimento. Gli educatori adulti devono mostrare a fronte della trasgressione un fermo atteggiamento di disapprovazione, ma le punizioni da regolamento devono mirare al recupero e non all’emarginazione solitaria. Dunque ben vengano i lavori utili, le esperienze ri-educative comminate ai bulli torinesi, le sanzioni amministrative o formative (obbligo di partecipare a un corso). Almeno in questo ambito l’autonomia non ha limiti.
E i leader scolastici dovranno essere coinvolti in prima persona in piani di miglioramento in campo educativo, promuoveranno il contributo della scuola alla comunità locale con specifici interventi (formativi e informativi), dovranno sporcarsi le mani nell’affrontare i casi difficili e i conflitti inevitabili, tenendo dritto il timone sui valori e sulla missione. Dovranno per questo saper ascoltare tutti e promuoveranno la collaborazione con le migliori risorse  del territorio per raggiungere risultati positivi per tutti.

E sul piano ancor più strategico della progettazione dell’insegnamento, delle politiche e strategie, i dirigenti si batteranno perché gli insegnanti riflettano collettivamente, da professionisti, nei gruppi disciplinari e nelle riunioni inter-dipartimentali sulla frammentazione dei saperi, che genera l’incomprensione del senso stesso dell’apprendimento; e si batteranno perché venga superata la metodologia trasmissiva e passivizzante a favore di metodologie attive, laboratoriali, legate allo sviluppo moderno dei saperi, sapendo che sono le competenze chiave di cittadinanza – quelle di cui garantire in primis il possesso. E in questo necessario ripensamento sosterranno il personale con la sola formazione utile, quella legata al confronto delle esperienze.

In questo immenso compito, incontreranno certamente difficoltà e frustrazioni, ma daranno un senso alla propria attività quotidiana, al difficile lavoro che ogni giorno brucia pesanti energie.

 

 
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