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SISTEMI EDUCATIVI EUROPEI

Intervista a Francesca Brotto

Basic Skills, Key Competences e certificazioni dell'apprendimento

di Francesca Brotto
18 Gennaio 2012

L’Europa richiede ai suoi cittadini un loro attivo coinvolgimento nell’apprendimento permanente. Quali possono essere alcune delle sfide che lei intravede per la scuola nel preparare i giovani a questo fatto?

Immagine tratta dall'Archivio DIAPrima di tutto vorrei far capire – almeno in parte – la situazione in cui si collocano queste sfide. I documenti europei, nel richiamare che l’organizzazione dell’offerta formativa richiede il concorso di una vasta gamma di attori sociali e collaborazioni anche intersettoriali, in ultima istanza, però, sottolineano la centralità del singolo soggetto e la sua responsabilità nel processo di apprendimento. Si tratta della responsabilità posta nell’individuo per la cura del proprio apprendimento e per la sua “valorizzazione” nell’arco della vita. Per “valorizzazione” intendo nel senso soprattutto di occupabilità, cioè il rimanere “appetibile” per il mercato del lavoro.
Secondo questa prospettiva ogni persona, dunque, per contribuire al proprio progetto di vita e al complessivo progetto europeo, deve occuparsi di creare, conservare, migliorare e investire il proprio capitale umano, investendo nel proprio apprendimento. La concezione del lifelong learning di cui stiamo parlando dipende allora anche molto dall’azione e intraprendenza del singolo. Questa intraprendenza è considerata vitale e non per niente costituisce una delle 8 competenze chiave europee. Nondimeno, è realmente possibile per tutti essere intraprendenti?
Come la mettiamo con chi si trova in situazione di svantaggio socio-culturale, ad esempio cioè con chi può avere maggiori difficoltà e minori strumenti auto-promozionali – culturali, esperienziali, e motivazionali – per “formarsi” e per assumere una forma mentis volta all’apprendimento permanente?
L’apprendimento è connaturato alla vita, come lo è il respiro. Dal momento in cui si nasce si inizia ad imparare. E’ un fenomeno esistenziale. Tuttavia, non si nasce con la consapevolezza di questo altro valore, che l’apprendimento ha acquisito nel mondo contemporaneo dell’economia globalizzata. La qualità di questo apprendimento, e il suo valore in termini di spendibilità, sono strettamente correlati alla natura e alla qualità delle esperienze quotidiane che il soggetto è portato a vivere, come riguarderanno anche le conseguenze che questo vissuto potrà avere sui processi di apprendimento della persona e su quello che apprende, quindi sulle competenze che acquisisce. Ma come incidere sulla qualità delle esperienze di vita?
Sono possibili discorsi di giustizia ed equità sociale se le premesse sono tutte centrate solo o soprattutto sulla “responsabilità” del singolo, a discapito di una responsabilità sociale e politica nel determinare la qualità di queste esperienze e le opportunità di metterle a frutto attraverso il lavoro?
Tutto ciò impatta direttamente sulla scuola (e non solo su di essa), chiamata in questo secolo ad alimentare la creazione di consapevolezza proprio su una tale posta in gioco. Tutto ciò incide sulla scuola (e non solo su di essa), in quanto dalla scuola ci si attende che possa costruire ed offrire opportunità di apprendimento di qualità per tutti. Il costrutto fondamentale su cui la scuola “di tutti e per tutti” si può basare, però, è la sostituzione della responsabilità individuale con la responsabilità sociale reciproca. Il problema principale forse sta proprio in questa enorme sfida, non solo per la scuola, ma per noi tutti.

Per affrontare le sfide poste dalla società della conoscenza, l’Europa indica una serie di “competenze chiave” (key competences) e di “abilità di base” (basic skills). Può spiegare di cosa si tratta, chiarendo le loro fondamentali differenze?

Nel Consiglio europeo del 2000, tra le premesse alla definizione della strategia europea per il 2010, la Presidenza portoghese dell’Unione auspicava l’adozione di un quadro europeo per “definire le nuove competenze di base da acquisire attraverso l’apprendimento permanente”. Si trattava allora di “ competenze in materia di tecnologie dell'informazione, lingue straniere, cultura tecnologica, imprenditorialità e competenze sociali”. Il termine utilizzato nel testo originario inglese per “ competenze di base” è basic skills. Tuttavia, nella descrizione fornita possiamo scorgere la forma embrionale di ciò che sarebbero state definite, sei anni più tardi, come le “competenze chiave per l’apprendimento permanente” nella Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, del 18 dicembre 2006.
Tra le “competenze di base/abilità di base”, o basic skills in inglese, e le “competenze chiave” (key competences) possiamo notare delle importanti distinzioni, che forse non emergevano del tutto all’inizio del processo di Lisbona. Infatti, in questi anni nei documenti si possono trovare addirittura scivolamenti di senso tra le stesse nozioni di“competenza” e di “abilità”.
Non esiste in realtà una definizione univoca di “competenza” (competence). Tuttavia, molti studiosi concordano nel dire che in sé la nozione tende a fare riferimento ad un’idea complessa che va oltre gli aspetti cognitivi e conoscitivi, ed include atteggiamenti e capacità personali, sociali e metodologiche oltre a un determinato insieme di abilità (skills) – le “skills” quindi come una componente più pratica e cognitiva delle stesse competenze, le quali, nel contesto dei documenti europei più recenti, sono definite anche in termini di responsabilità e autonomia.
Le 8 competenze chiave sono ritenute dall’Unione europea come quelle di cui tutti hanno bisogno per la realizzazione e lo sviluppo personale, la cittadinanza attiva, l’inclusione sociale e l’occupazione nel XXI secolo. Esse costituiscono un insieme multifunzionale e sono ampiamente illustrate nell’Allegato alla Raccomandazione del 18 dicembre 2006 che ho appena citato e che invito tutti a consultare.

Stiamo assistendo ad un salto di paradigma con il passaggio da un sistema educativo strutturato sui “contenuti” ad un altro sulle “competenze”. Secondo Lei, in quali ambiti vi dovranno essere le trasformazioni più significative?

La costruzione di competenze costituisce, secondo Deakin Crick (2008, p. 311), “un atto ideologico e politico”, in quanto esse sottendono particolari visioni della società per vivere nella quale servirebbero determinate competenze da costruire in modi mirati. Se è la società della conoscenza e del lifelong learning ciò che si vorrebbe costruire, gli scenari che le politiche economiche ed educative attribuiscono a questa concezione di società certamente influenzeranno i discorsi sulle competenze da sviluppare.
Tuttavia, senza entrare nel merito di quali competenze occorrerebbe costruire in relazione alle diverse visioni di società, è importante ricordare che, già di per sé, un paradigma basato sulle competenze, e non più sui “contenuti”, implica un cambiamento di ottica e di strutturazione per il sistema educativo. Si tratterebbe certamente di un analisi del profilo in uscita in termini delle competenze che lo caratterizzano, di nuove metodologie di insegnamento e apprendimento e nuove modalità organizzative dell’offerta formativa e delle strutture scolastiche, di sistemi di valutare e certificare l’acquisizione delle competenze, e nuove relazioni tra i soggetti interessati al processo educativo. Credo che molte scuole si stiano già interrogando su questi aspetti. Ma si tratta anche di formare insegnanti e capi d’istituto a riflettere sull’apprendimento sia esplicito che implicito delle competenze, come anche di scrivere curricoli che possano davvero mobilizzare le competenze trasversali, e linee di indirizzo a livello centrale che tengano sempre saldo l’obiettivo in ogni loro articolazione.
Aggiungo un’altra breve considerazione. Quand’anche tutto ciò fosse stato realizzato, se non troviamo il modo di sostenere lo sviluppo dell’autonomia nei giovani sia a casa che a scuola, saremo solo a metà dell’opera. Abbiamo visto che il grado di autonomia è un aspetto essenziale della competenza. Allora, a volte quando visito scuole all’estero (e non solo nei paesi scandinavi!) e ho il modo di osservare processi, tempi e spazi di lavoro che davvero sollecitano il graduale sviluppo dell’autonomia nei bambini e giovani, mi chiedo perché da noi spesso si antepongono la tutela della sicurezza dei minori e l’obbligo di vigilanza come un ostacolo allo sviluppo della loro autonomia. E’ un fatto culturale, certamente, ma ricordo anche che le norme europee sulla sicurezza sono state recepite necessariamente ovunque in tutti i Paesi europei, e quindi anche nelle loro scuole. Questa è una cosa su cui anche i genitori potrebbero riflettere.

L’Europa prevede un monitoraggio periodico, con indicatori e parametri di riferimento, dei progressi compiuti dagli Stati rispetto agli obiettivi posti a livello comunitario. L’intento è individuare i rispettivi punti di debolezza e proporre un indirizzo strategico generale. Quali sono le opportunità e quali le criticità di questo metodo?

Il monitoraggio periodico dei progressi mediante l'impiego di indicatori e parametri di riferimento era uno degli elementi essenziali della strategia di Lisbona per il 2010 e rimane sostanzialmente tale anche per la strategia europea del 2020. Il loro impiego è utile per l’orientamento strategico del programma di lavoro europeo, oltre che per fornire indicazioni sulla performance degli Stati membri nell’implementazione degli obiettivi concordati. Nell’analisi comparativa dei progressi compiuti dagli Stati, la visibilità e pubblicità dei dati relativi a ciascun Paese possono influenzare reciprocamente le politiche nazionali relative ai settori in cui la performance nazionale appare inadeguata rispetto ai parametri fissati. In questo modo, l’uso degli indicatori e dei parametri di riferimento, come strumenti di soft governance in un settore – l’istruzione – in cui non può essere fatto ricorso a strumenti legislativi vincolanti a livello europeo, diventa significativo per accentuare il processo di convergenza delle politiche educative stesse.
Nel caso delle competenze chiave, tuttavia, l’individuazione di indicatori appropriati per monitorarle tutte non è un lavoro semplice e dagli esiti scontati, e molto rimane da fare. Al momento, solo nel caso delle competenze in lingua madre e in matematica e scienze, gli indicatori utilizzati hanno una definizione già largamente accettata per l’Unione europea, e si possono fondare ampiamente su dati esistenti, cioè quelli forniti dalle prove standardizzate nell’ambito dell’indagine internazionale OCSE-PISA. Ma ad essere monitorate sono essenzialmente le basic skills o abilità fondamentali, nella misura in cui sono aspetti più facili da osservare. L’immagine che potranno fornire è, pertanto, solo parziale e di segno approssimativo – indicativo, per l’appunto – dell’andamento delle competenze nel loro insieme. E’ importante tenere questo fatto a mente per non confondere i due concetti e non considerare le competenze in termini riduzionistici.
Inoltre, la definizione e implementazione di indicatori per le competenze chiave più trasversali presentano particolari problemi, soprattutto perché si ha a che fare con competenze più descrivibili in termini di processo che in quelli di risultato. Come ricorda la Commissione europea stessa (2008), “occorre garantire che gli aspetti di una competenza che non possono essere misurati in un test non siano percepiti come meno importanti e, quando si producono i test e gli indicatori basati sui risultati dei test per certe competenze, occorre sottolineare ciò che non può essere sottoposto al test, per mettere in evidenza i limiti dell’indicatore”.

In una società, come la nostra, dove apprendimento permanente, apprendimento informale e mobilità assumono sempre più rilevanza, secondo lei non si pone per i sistemi di istruzione e formazione anche la questione del riconoscimento delle competenze acquisite in ambiti extra-scolastici e extra-nazionali ?

L’apprendimento permanente e il riconoscimento di quanto è stato appreso nei vari ambiti e percorsi sono intrinsecamente connessi. L’Unione europea è caratterizzata da una grande varietà di regimi di istruzione e formazione, che rappresentano una ricchezza da più punti di vista. Questa ricchezza, tuttavia, può anche rappresentare un ostacolo alla portabilità di competenze e titoli acquisiti da un individuo, giovane o adulto, che dovesse passare da un sistema a un altro o da un percorso di apprendimento verso un altro, anche all’interno di uno stesso sistema di istruzione e formazione. Il tutto è anche fortemente collegato alla possibilità, o alla necessità, per l’individuo di intraprendere una mobilità geografica, formativa, lavorativa e sociale. Esiste un problema di trasparenza e traducibilità, quindi, di quanto un determinato soggetto possa aver appreso nel tempo e nei diversi contesti di apprendimento. Lo stesso problema, se impedisce il riconoscimento e la capitalizzazione delle competenze, potrebbe inibirne anche la trasferibilità e spendibilità nella formazione ulteriore e nel lavoro sia a livello nazionale che europeo.
L’apprendimento permanente, inoltre, per definizione ha a che fare con ogni forma di apprendimento, in ambito formale o non formale o informale. In questi termini, ciò che si apprende nella vita può essere rappresentato dalla metafora dell’iceberg: l’individuo si confronta con la difficoltà di come “far emergere” quanto di “invisibile” o scarsamente visibile del suo apprendimento informale e nonformale possa risultargli potenzialmente utile per proseguire negli studi o nel lavoro. Facevo riferimento prima al valore economico che i risultati dell’apprendimento hanno ormai assunto (non a caso, i termini impiegati come “spendibilità”, “accumulazione” o “capitalizzazione” appartengono alla medesima sfera semantica). Inoltre, occorre ricordare ciò che la Banca Mondiale chiama “ la rapida deperibilità della conoscenza, delle qualifiche e delle occupazioni” (2002, p. 27), il che significa per la persona un continuo sforzo di rinnovamento della propria occupabilità (siamo sempre nella dimensione della “responsabilità individuale” che richiamavo all’inizio), vista la concorrenza di competenza che gli scenari dell’economia globalizzata presentano. Come validare, quindi, le competenze non rese “visibili” tramite le certificazioni già formalmente acquisite? Come sopperire alla mancanza di un sistema che automaticamente riconosca titoli e qualifiche acquisiti in altri paesi europei?

Per quanto possa riguardare maggiormente il mondo della scuola, possiamo segnalare alcuni diversi tipi di strumenti europei, collegati l’uno all’altro, volti a favorire trasparenza, traducibilità, accumulazione e trasferibilità dei risultati dell’apprendimento :

  • Il quadro comunitario unico per la trasparenza delle qualifiche e delle competenze, denominato Europass; si prevede, inoltre, anche un nuovo dispositivo denominato il “Passaporto europeo delle competenze personali”, che parte dall’insieme degli elementi attualmente disponibili della sfera Europass.
  • Il quadro di riferimento europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente, conosciuto con l’acronimo QEQ (Quadro europeo delle qualifiche);
  • Un sistema europeo di crediti per l’istruzione e la formazione professionale, conosciuto con l’acronimo ECVET (European Credit System for Vocational Education and Training). La Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio del 18 Giugno 2009 prevede, inoltre, l’istituzione di un quadro europeo di riferimento per la garanzia della qualità in questo settore (denominato EQARF), come strumento di riferimento destinato ad aiutare gli Stati membri a promuovere e a seguire il miglioramento continuo dei loro sistemi di istruzione e formazione professionale sulla base di riferimenti europei comuni.

Maggiori informazioni sono disponibili sul sito dell’ISFOL, punto di riferimento nazionale per questi dispositivi.

L'intervista prende spunto dalla recente pubblicazione, 2020 I sentieri dell'Europa dell'istruzione, Armando Editore, Roma, 2010 di cui Francesca Brotto è coautrice con Antonio Giunta La Spada.

Francesca Brotto, dirigente scolastico comandata allo svolgimento di compiti connessi all'attuazione dell'autonomia scolastica, lavora con funzioni polivalenti di consulenza tecnica, ricerca, progettazione e supporto ai processi presso la Direzione Generale per gli Affari Internazionali (MIUR). Ha ricoperto ruoli di esperta in vari gruppi di lavoro dell'Unione Europea e del Consiglio d'Europa.

 
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