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STANDARD DI APPRENDIMENTO

Valorizzare il capitale delle conoscenze di ognuno

Su standard e competenze, intervista a Claudio Gentili, direttore del Nucleo Formazione e Scuola della Confindustria

di Indire Comunicazione
06 Febbraio 2004

Claudio Gentili è autore di diverse pubblicazioni in tema di istruzione, tra le quali il recente "Scuola ed Extrascuola". L'intervista che ha gentilmente rilasciato alla nostra redazione, mette in rilievo, tra le altre cose, come si stia ridefinendo il rapporto fra mondo della scuola e mondo del lavoro.

Può spiegarci cosa si intende per standard e cosa per competenze? Dove si trova il confine tra gli uni e le altre?

Standard non è una parola inglese come tradisce la pronuncia, ma francese. Lo standard è  un punto di riferimento, un modello, una meta  cui ambire, non è il minimo comune denominatore. Sento troppo parlare di “standard minimi” e temo un approccio di tipo comportamentista. Il rischio che intravedo è che lo standard introduca tardivamente il taylorismo nei processi di insegnamento – apprendimento. In Gran Bretagna succede non poche volte che gli studenti vengano indotti a studiare le risposte ai quiz, un po’ come avviene da noi per l’esame della patente.
Si sta affermando una nuova idea di  “competenza” e una nuova idea di educazione scolastica che non mira a riempire la testa degli studenti, ma a fornire loro i saperi critici per continuare ad apprendere.
La competenza comprende componenti cognitive, emotive, motivazionali, sociali e comportamentali.  L’uso del termine competenza  intende ridisegnare un nuovo modo di apprendere (e una nuova finalità dell’apprendimento) che non sia meramente nozionistico, meramente enciclopedico, puramente tecnico, ma sia capace di coniugare la teoria con l’azione.

 
Che valore hanno gli standard nella scuola italiana ed in che modo stanno influenzando la vita degli studenti?

La scuola fa cultura, l’apprendimento non è quantificabile in modo rigido e una parte rilevante dell’apprendimento è quello che viene definito “generativo”, che suscita nuovo apprendimento. La parte di apprendimento che è misurabile (ma che non esaurisce il processo di insegnamento-apprendimento) chiama in causa il tema degli standard.
Questo segna il passaggio dalla scuola di programma alla scuola degli obiettivi didattici.
Nella scuola, e in particolare nella scuola dell’autonomia, si dovrà aderire a questa tendenza che nasce dall’esigenza condivisa, a livello nazionale e sovranazionale, di creare competenze  omogenee,  riconoscibili  e certificabili con parametri unificati, in base al sistema di valutazione dei crediti formativi.
Tre regole basilari – agire in autonomia, lavorare in gruppo, apprezzare le diversità – possono offrire opportunità per descrivere le competenze chiave.
Il nuovo concetto di competenza e la prospettiva europea delle competenze chiave ci condurranno in futuro (è questo almeno l’auspicio di molti) a dedicare sia nel campo educativo che nell’ambiente professionale una crescente attenzione alla misurazione delle competenze.


Stiamo vivendo in un’era nella quale lo sviluppo tecnologico rende obsolete tecniche e conoscenze personali con una velocità forse mai prima d’ora sperimentata. Cosa deve fare la scuola per fornire competenze in grado di sopravvivere nel tempo?

La formazione ha ormai travalicato lo spazio e il tempo, non è più rinchiusa solo nello spazio fisico di una istituzione scolastica e non è più rinchiusa nel tempo predefinito  della cosiddetta età scolare. Lifelong learning, l’apprendimento lungo l’intero arco della vita non è più un auspicio dei documenti europei, è una realtà. Questo dà alla scuola due compiti fondamentali. La scuola non può inseguire le altre agenzie educative ma deve saldamente ancorarsi al cuore della sua missione: porre le basi più solide possibili sul piano culturale e trasmettere il patrimonio delle generazioni passate senza indulgere alla moda del momento. In secondo luogo la scuola, da “serra” o “prigione”, come talora è vissuta dai giovani, deve diventare scuola aperta. Abbattere le grandi muraglie culturali che la vedono troppo spesso separata dal modo esterno.

Nella società complessa del terzo millennio solo la scuola può essere l’unico soggetto abilitato a gestire e certificare le competenze? Quali dovrebbero essere gli altri soggetti interessati a questo compito?

Nelle società industriali, in cui l'organizzazione sociale e produttiva è fondata sul sapere sperimentale e sulla sua traduzione in tecnologie ed in sapere professionale, la funzione educativa diviene più complessa. La continua crescita del sapere applicato, la nascita di nuovi prodotti e di nuovi mercati, la conseguente moltiplicazione delle figure e dei livelli professionali, rendono sempre più complessa l'organizzazione sociale e produttiva.
Le fasi di orientamento e professionalizzazione accrescono la loro importanza nella funzione educativa, e la stessa socializzazione deve affrontare problemi assai più ardui perché con la complessità cresce il pluralismo sociale e divengono assai più sofisticate le regole della convivenza.
Ora, a ben vedere, questi due fattori (conoscenze formali da una parte e abilità professionali dall’altra) sono tradizionalmente i "prodotti" di due organizzazioni distinte (la scuola e l’impresa) le quali, nella loro rigida autoreferenzialità, si sono sempre chiuse all'interno dei propri confini di azione tanto da non permettere la benché minima forma di infiltrazione l'una dell'altra. Oggi queste due organizzazioni, riconoscibili nella scuola e nell'impresa, sono chiamate a collaborare, al fine di dotare giovani e meno giovani di un profilo professionale completo e per questo rispondente alle esigenze di un mercato del lavoro in continua  trasformazione.


Quali sono, secondo la sua opinione, i cambiamenti reali che potranno avvenire nei prossimi anni, e quali quelli auspicabili?
 
La differenza fondamentale tra persona e persona sarà sempre di più il bagaglio di conoscenze ed esperienze che avrà saputo accumulare, sistematizzare e rinnovare: in altre parole, le persone, saranno valutate e avranno riconoscimenti per il capitale di conoscenza accumulato da parte di ciascuno nel corso della carriera formativa e delle  esperienze lavorative. 
Se è vero, allora, che i lavoratori della conoscenza diventano la classe centrale del mondo del lavoro, specularmente risulteranno avvantaggiati i lavoratori dei Paesi dotati di sistemi formativi “forti”. Viceversa, resteranno penalizzati i lavoratori dei Paesi a formazione debole ed è bene ricordare che la formazione ha un ruolo essenziale non solo per la cosiddetta "occupazione innovativa" (quella, appunto, relativa ai knowledge workers) ma anche per quella tradizionale.
In questo senso dobbiamo tendere a mettere tutti gli individui in condizione di avere le competenze per incontrare i bisogni in continuo mutamento delle imprese e al fine di realizzare le loro aspirazioni e potenzialità nel lavoro. Solo in tal modo, l'incertezza verrà percepita come un elemento "salutare" e non, invece,  angosciante come la condizione di chi è privo di un solido bagaglio culturale e professionale e, dunque, si trova inerme di fronte alla complessità.
Investendo in conoscenza e portando tutti i lavoratori, con un nuovo e più efficace sistema di formazione iniziale e di formazione continua,  al possesso di un bagaglio di competenze solido anche dal punto di vista tecnologico, noi riusciremo a gestire l'incertezza a nostro favore.

 

 

Editing a cura di redazione webzine

 

 

 

 


 

 
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