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indireinforma

4 Giugno 2004

Scuola di razza

Disegni scolastici nella scuola fascista

di Redazione

Sono ormai alcuni anni che l’Indire ha avviato un progetto di recupero e valorizzazione del considerevole patrimonio documentario conservato all’interno del proprio archivio storico.

Particolare attenzione è stata rivolta al fondo «Materiali scolastici», nel quale sono raccolti oltre tremila quaderni di scuola ed elaborati didattici prodotti nelle scuole italiane tra la seconda metà degli anni Venti e la prima metà degli anni Sessanta e inviati al Centro Didattico Nazionale di Firenze, al fine di documentare l’attività didattica svolta in classe dagli insegnanti.

Nel corso della lunga e complessa attività di catalogazione elettronica dei materiali scolastici – ormai praticamente completata – sono stati reperiti alcuni documenti di eccezionale valore, del tutto inediti. In particolare, due di essi hanno sollevato la curiosità degli archivisti, spingendoli a tralasciare per qualche tempo l’attività di catalogazione e a intraprendere un’emozionante indagine storiografica, che ha contribuito a far luce sulle vicende umane di alcuni alunni ebrei alla vigilia della pubblicazione del Regio Decreto Legge n. 1390 del 5 settembre 1938 per la difesa della razza nella scuola fascista.

Il primo documento è una raccolta di otto disegni realizzati con matite colorate e montati su cartoncino [1]. Ogni disegno reca un’intestazione di pugno dell’insegnante, con un titolo e il cognome dell’autore. Non sono indicati né la scuola frequentata dagli alunni, la quale era con ogni probabilità una scuola elementare romana, né la data di produzione, da comprendersi comunque con sufficiente certezza tra l’ottobre 1935 (invasione dell’Etiopia) e il settembre 1938 (promulgazione delle leggi razziali). La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei disegni medesimi, i quali rappresentano episodi della guerra d’Etiopia e almeno in due casi recano all’intestazion cognomi d’origine ebraica. Questi due elementi, combinati, circoscrivono appunto il periodo nel quale i disegni possono essere stati realizzati: tra l’invasione dell’Etiopia da parte delle truppe coloniali italiane e la promulgazione delle leggi razziali, in applicazione delle quali gli alunni Sermoneta e Coen non avrebbero potuto rimanere in classe con altri bambini di “razza ariana”.

Non conosciamo i nomi di Sermoneta e Coen. Sappiamo solo che erano due bambini, non molto diversi da quelli che affollavano la loro stessa scuola. L’approssimazione figurativa evidente nei loro disegni ci dice che quasi sicuramente questi bambini frequentavano le prime classi elementari. Nel periodo preso in considerazione, quindi, essi potevano avere un’età compresa tra i 6 e gli 8 anni. Come tutti gli altri alunni ebrei iscritti alle scuole italiane, nel settembre del 1938 anche i piccoli Sermoneta e Coen furono costretti ad abbandonare la propria scuola e a iscriversi alla scuola per alunni ebrei, vittime della segregazione razziale e delle discriminazioni del regime fascista. Non si sa cosa fu di loro dopo questa data, né se anche loro si trovavano tra gli oltre duecento bambini rastrellati dalle truppe tedesche il 16 ottobre 1943 e caricati due giorni più tardi insieme a numerosi altri ebrei romani su un convoglio ferroviario diretto al campo di sterminio di Auschwitz. Dei 1.024 ebrei rastrellati quel giorno nel ghetto di Roma solo sedici sono tornati: nessuno dei bambini è sopravvissuto.

Una semplice ricerca compiuta nel Central database of Shoah victims’ names dello Yad Vashem di Gerusalemme ha consentito di reperire le generalità di quattro bambini ebrei di cognome Sermoneta, uno dei quali – per la loro età all’epoca della produzione della raccolta di disegni e per la loro residenza nella città di Roma, nelle vie del ghetto ebraico, come via Sant’Ambrogio e via Arenula – potrebbe essere l’anonimo Sermoneta che immortalava quattro ascari eritrei impegnati in una trionfale parata sulle ambe abissine, simbolicamente sovrastati dal volo di un aeroplano tricolore. I nomi di questi quattro bambini ebrei erano: i fratelli Benedetto e Pacifico Sermoneta (nati a Roma rispettivamente il 12 febbraio 1930 e il 7 novembre 1931 da Prospero e Fausta Zarfati), Sergio Sermoneta (nato a Roma il I marzo 1928 da Benedetto ed Emma Piperno) e Salvatore Sermoneta (nato a Roma il 15 maggio 1929 da Benedetto e Costanza Della Rocca). Non sappiamo con assoluta certezza di chi fu la mano che aiutandosi con poche matite colorate abbozzò la scena qui riprodotta; ciò che invece sappiamo con certezza è che Benedetto, Pacifico, Sergio e Salvatore morirono nei campi di sterminio nazisti tra il settembre 1943 e l’aprile 1944.

 

Disegno senza titolo di Sermoneta (Fondo «Materiali scolastici» – Indire)

 

Nel database dello Yad Vashem non abbiamo trovato traccia del piccolo Coen. L’assenza di un bambino nel quale si potesse verosimilmente riconoscere il piccolo disegnatore che aveva rappresentato la lenta avanzata dei carri armati italiani sulle ambe abissine, con le “bocche di fuoco” arroventate, può significare due cose: che il 16 ottobre 1943 il piccolo Coen era scampato al rastrellamento del ghetto romano e non aveva seguito la drammatica sorte di tanti suoi compagni oppure che il suo corpo è rimasto senza nome, “passato per il camino” come quello del bambino cantato da Francesco Guccini in «Auschwitz».

 

Disegno “La guerra” di Coen (Fondo «Materiali scolastici» – Indire)

 

Il secondo documento è un quaderno collettivo prodotto dagli alunni della prima classe della scuola elementare «Edmondo De Amicis» di Livorno nel corso dell’anno scolastico 1937-1938 [2]. Il quaderno è suddiviso in due parti: la prima parte presenta esercizi di avviamento alla scrittura (composti in parte da esercizi di scrittura pittografica) ed esercizi metodici di dettatura delle sillabe semplici e composte oltre che di semplici testi; la seconda parte presenta esercizi di scrittura di numeri, esercizi di numerazione progressiva ed esercizi sulle quattro operazioni fondamentali. In buona parte dei testi emerge la presenza di un esplicito intento propagandistico, posto in atto dalla maestra Giulia Galletta Biagi in ottemperanza alle rigide direttive ricevute dal Ministero nell’educazione nazionale.

La propaganda fascista emerge a ogni pagina negli elementi decorativi, nei componimenti scritti e nei dettati, perfino negli esercizi aritmetici. È un tripudio di fasci littori, svastiche, bandiere tricolori, aquile imperiali e motti fascisti.

Fin qui niente di strano, dato che all’interno del fondo «Materiali scolastici» sono conservati numerosi quaderni di cultura fascista. Se non che, anche in questo caso, l’analisi onomastica dei nomi degli autori segnati sulle pagine del quaderno ha evidenziato la presenza di due alunni ebrei, i quali frequentavano regolarmente una scuola statale alla vigilia della promulgazione delle leggi razziali.

I nomi dei due bambini ebrei erano Sergio Levi e Vittorio Recanati. In classe con loro c’erano altri dodici “bambini ariani”, i cui nomi emergono uno dopo l’altro dalle pagine del quaderno: Gian Carlo Ferrara, Erminio Rizzacasa, Alberto Paoletti, Tino Wassmuth, Giampiero Lorenzi, Luciano Amadori, Nino Bronda, Frantz Keller (probabilmente figlio del fiduciario del Partito nazionalsocialista a Livorno), Federighi, Bartoli, Marchi e Bertinasco.

Ciò che colpisce maggiormente è come in una scuola elementare italiana della fine degli anni Trenta potessero convivere piccoli balilla, figli di nazisti e bambini ebrei, indistintamente sottoposti alla medesima educazione totalitaria e plagiati dalla propaganda di regime. È sufficiente leggere qualche pagina del quaderno collettivo per comprendere a quale pressione ideologica fossero sottoposti gli alunni. In un dettato del 19 maggio 1938, Vittorio Recanati scriveva:

«Oggi sotto la guida del nostro Duce molti lavoratori dal pugno di acciaio lavorano e trasformano le incolte terre affricane, guadagnano là il pane e vi fanno sorgere vigneti carichi di pigne, portando in tutta la campagna il segno della civiltà romana. Anche molti schiavi hanno conquistato la tanto agognata libertà e lavorano allegri e contenti a fianco dei nostri bravi lavoratori».

In un dettato del 14 giugno 1938, invece, Sergio Levi, per un triste scherzo del destino, veniva scelto dalla maestra Galletta Biagi per osannare i numerosi provvedimenti presi dal regime fascista al fine di rinvigorire la stirpe italica, prendendosi cura della gioventù e facendo in modo di renderla sana e robusta:

«Il Littorio chiama ogni anno alle colonie marine i figli dei lavoratori dei campi, delle officine e degli uffici perché vi acquistino salute e forza. Fra essi ci sono anche i fanciulli italiani che vivono allo estero e che per un mese vengono a respirare la aria della Patria, a udirne la dolce favella, a goderne questo meraviglioso mare che in nessuno altro paese è così azzurro, profondo e sereno».

Non ci è dato di sapere se, all’epoca dei fatti, i piccoli Sergio e Vittorio credessero fino in fondo alle frasi che trascrivevano pedissequamente sul proprio quaderno, sotto l’occhio vigile della maestra, o se invece avvertissero in esse le prime avvisaglie di quanto sarebbe di lì a poco accaduto. Probabilmente, essendo solo bambini in mezzo ad altri bambini, non si accorsero di niente.
Lo dimostra il disegno eseguito da Vittorio Recanati il 25 marzo 1938 a illustrazione di un breve dettato, nel quale egli stesso si rappresentava in questo modo:

 

Disegno di Vittorio Recanati (Fondo «Materiali scolastici» – Indire)

 

In seguito ad approfondite ricerche siamo riusciti a reperire soltanto due di quei quattordici bambini, ancora in vita e residenti a Livorno: Gian Carlo Ferrara ed Erminio Rizzacasa. Nessuna traccia di Sergio Levi e Vittorio Recanati. Cos’era dunque stato di loro?

Sicuramente nel settembre del 1938 – pochi mesi dopo aver scritto sotto dettatura i proclami del regime e aver acclamato l’opera svolta dal regime nei propri componimenti – anch’essi erano stati espulsi dalla «De Amicis» perché ebrei e costretti ad iscriversi alla scuola ebraica [3]. In nostro soccorso è giunta la Comunità ebraica di Livorno, un cui membro ci ha riferito che Vittorio Recanati era morto soltanto qualche anno fa, ma il fratello Edoardo era ancora in vita e si era trasferito in Israele. Nessuna notizia invece del piccolo Levi.

Abbiamo immediatamente scritto una lettera ad Edoardo Recanati, chiedendogli di raccontarci la storia di suo fratello Vittorio, cosa che egli ha fatto in una intensa e commossa lettera, datata 23 aprile 2006:

«Non avrei mai immaginato che degli scritti di mio fratello potessero aver sopravvissuto tutti questi anni, in particolare perché la città di Livorno ebbe i suoi archivi distrutti nel periodo bellico. Lei ha ragione di dire che il piacere di vedere queste, che io chiamerò “reliquie”, è stato accompagnato da grande emozione. Non eravamo affatto praticanti della nostra religione, a parte qualche informale partecipazione nelle feste maggiori. Da noi era importante la cultura italiana, la bellezza della nostra arte, letteratura, musica, ecc. ecc. Mio padre era contrario al sionismo perché considerava che gli Ebrei erano cittadini del mondo e potevano e anche dovevano contribuire più facilmente nella Dispersione. Con tutto ciò, era orgoglioso delle sue origini e si difese anche manualmente da occasionali insulti.
Quando apparve il fascismo, dopo tutte le confusioni del primo dopoguerra, fu il benvenuto – anche per gli Ebrei – perché prometteva ordine, progresso e… superbia italiana! In definitiva, eravamo parte della cosiddetta piccola borghesia, come era intesa a quei tempi. Eravamo molto benestanti e volevamo tranquillità e benessere. Mio padre, Arturo, sposò mia madre, Giorgina Azria, ebrea di Livorno, perché in ogni modo non avrebbe mai sposato una non-ebrea. Questa apparente contraddizione dai suoi principi cosmopoliti era spiegata in questi termini chiari (?) e precisi: “È così!”. Mio padre era parte di un’organizzazione fascista di cui non ricordo il nome. Dopo molti anni, quando eravamo già rifugiati in Tunisia, vidi che aveva portato via con sé dei gambali e altre suppellettili littorie! Secondo me, questa era la prova della sua buona fede e di certi rimpianti nei suoi primi rapporti con il fascismo.
Mio fratello Vittorio era naturalmente un Figlio della Lupa. Abbiamo da qualche parte una fotografia sua nello stadio di Livorno, all’occasione di qualche avvenimento propagandistico. È in prima fila, con un sorriso malizioso, probabilmente parte degli ufficialetti.
La guerra d’Etiopia cominciò a destare dubbi, e così i controversi rapporti con il nostro secolare nemico, la Germania. Una cosa era certa (!) le mascalzonate di Hitler non avrebbero mai trovato posto in Italia. Mussolini aveva avuto anche un’amante ebrea e gli ebrei stessi non si distinguevano dagli italiani… Quindi non c’era niente da temere, si trattava di un capriccio tedesco che non si poteva esportare verso l’Italia. Nel settembre 1938 avvenne il triste risveglio con le leggi razziali. Eppure gli ebrei non vollero vedere la scritta sul muro e attesero che la tempesta passasse. Non così per mio padre, dritto come un righello, e per il quale c’era il bianco e c’era il nero; con l’onestà non si transige. Andò tuttavia a iscriverci alla scuola italiana e protestò che lui era italiano patriota e leale. Non lo ascoltarono e lo mandarono alla scuola ebraica. Per mio padre fu un dolorosissimo schiaffo nelle sue più profonde convinzioni. Si sentì tradito dalla sua patria e non sapeva e non poteva perdonare.
Dopo pochi giorni arrivammo a Tunisi dove era conosciuto per rapporti d’affari. Da notare che a Livorno vivevamo in un appartamento spazioso in centro, con varie persone di servizio e con due macchine, cosa rarissima a quell’epoca. Le vacanze le passavamo nella nostra lussuosa villa a Castiglioncello e queste abitazioni erano piene d’oggetti d’arte e mobili di buon gusto. Ora a Tunisi, eravamo rifugiati in una singola camera d’affitto con uso di cucina e bagno in comune. Di quel periodo ho un ricordo confuso; non avevo ancora quattro anni. Rivedo la nostra partenza da Livorno con un sacco di gente, parenti ed amici, venuti a salutarci. Ci fecero molti regali ed io ero felice e fierissimo di una valigetta che ricevetti per i miei giocattoli. Mio padre mi raccontò che tutti quelli che vennero al porto, fino all’ultimo minuto tentarono di dissuaderlo a fare questo passo temerario. Tutti sostenevano che si trattava di una tempesta in un bicchier d’acqua. Quando tornammo, dopo più di dieci anni, non c’era nessuno ad accoglierci!
A Tunisi, andai immediatamente, con mio fratello, alla scuola francese. Mio padre fece anche domanda di naturalizzazione francese, ma non l’ottenne mai. La vita era difficile e piena di privazioni sconosciute prima. Tuttavia, quello che ricordo bene è che non ho mai sentito lamenti o rammarico. La nostra decisione era stata quella giusta e non c’erano alternative. Ricordo personalmente il 10 giugno 1940 aver veduto mio padre con le lacrime agli occhi quando venne la notizia che l’Italia aveva dichiarato guerra alla Francia. Da notare che sono ancora in dubbio se la decisione paterna di partire come rifugiati, che in ogni modo ci salvò la vita, era causata dal timore dei guai in vista o dall’orgoglio ferito.
In Tunisia, intanto, cominciarono le persecuzioni quando arrivarono i Tedeschi e il governo francese si trasferì a Vichy. L’Ambasciata italiana rifiutava di riconoscerci e quindi fornire qualunque documento necessario. Fummo costretti a iscriverci in una lista speciale di ebrei. Infine, mio padre vide la sua preziosa radio sequestrata in quanto ebreo.
Dopo più di dieci anni, ritornammo nella patria amata e ora democratica. Fu tremendamente difficile. Il nostro patrimonio era sparito, tra furti e bombardamenti. Mio padre dovette ricominciare i suoi affari da zero. E noi ragazzini dovemmo di nuovo sottoporci a un’inversione di lingua faticosa e penose. Mio fratello Vittorio (tre anni maggiori) non ce la fece e interruppe degli studi molto promettenti; io fui più fortunato perché più giovane ed arrivai a finire l’Università».

 

Quella di Vittorio Recanati è l’unica storia che ci è dato di conoscere per intero. Sulla sorte di Sergio Levi e dei piccoli Coen e Sermoneta non disponiamo di notizie certe, anche se abbiamo tentato di tracciare alcune ipotesi. Nonostante ciò, c’è un elemento che sembra accomunarle: la drammaticità degli eventi che sconvolsero per sempre le vite di questi bambini, traditi dallo stesso regime del quale s’erano pure adeguati a cantare le lodi sui banchi di scuola.

 

 

Articolo di Juri Meda,

 


[1] Archivio storico Indire, Fondo «Materiali scolastici», XII.2.17.
[2] Archivio storico Indire, Fondo «Materiali scolastici», I.89.
[3] Sulla scuola ebraica di Livorno, cfr.: 1938: la scuola ebraica di Livorno: un’alternativa alle leggi razziali (Museo ebraico “Yeshiva Marini”, Livorno: 5-25 maggio 1997), Comunità ebraica di Livorno – Fondazione “Primo Levi”, Livorno 1997.