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indireinforma

28 Aprile 2009

“Progettate scuole come centrali elettriche”

Rinnovare l'architettura della scuola attraverso la partecipazione

di Maria Grazia Mura

L’esperienza di Peter Hubner, progettista tedesco impegnato da anni in esemplari realizzazioni di architettura scolastica dove la partecipazione è una componente essenziale del processo generativo dell’edificio, è particolarmente interessante e rappresenta un importante punto di riferimento per questi temi.

Le sue scuole sono concepite come edifici in evoluzione, dove l’ambiente in cui si muovono gli studenti – il terzo educatore – può contribuire in modo sostanziale a creare un impatto positivo e piacevole con l’insegnamento. Esortando a “progettare scuole come centrali elettriche” Hubner mostra con il proprio lavoro come sia possibile “realizzare edifici che generano la potenza dell’apprendere”.
L’originalità della sua proposta comincia quando, oltre al riconoscere l’importanza primaria del contesto dove avviene il processo vitale dell’educazione, individua nel metodo partecipativo un valore speciale per la costruzione di luoghi vivibili. L’esperienza diretta lo porta infatti ad affermare che il bisogno di personalizzare e rendere unico il proprio luogo di vita, non solo è un bisogno fondamentale e insopprimibile ma anche una capacità innata. Le persone hanno bisogno di case e allo stesso tempo sono capaci di costruire case e l’istinto del bambino a cercare rifugi alla sua misura può essere letto come l’istinto a costruirsi intorno un ambiente.
Per cogliere il focus della sua proposta è utile ricordare una fondamentale esperienza dei primi anni ’80, quando a Stoccarda ha dato vita all’esperimento del Bauhausle, una serie di alloggi per studenti di aspetto molto particolare, realizzati in gran parte in autocostruzione dagli studenti stessi con il coordinamento di alcuni docenti.
Oltre al lavoro iniziale di progettazione e costruzione, con il tempo anche i ragazzi arrivati successivamente sono stati protagonisti di ulteriori processi di abbellimento, riparazione, e personalizzazione degli edifici.
L’effetto del lavoro autogestito è stato quello di dare al complesso un’identità che lo solleva dall’uniformità anonima e si è dimostrato perfettamente adeguato allo scopo di essere riconosciuto come proprio dai giovani, come ricorda Peter Blundell Jones, nell’importante volume dedicato a Peter Hubner [Peter Hubner: Bauen als ein sozialer Prozess (Building as a social process)]. Dopo molti anni gli edifici, liberi da qualunque segno di vandalismo, vengono sempre trattati affettuosamente dai propri abitanti.
Da questa esperienza, anche se per molti versi difficilmente ripetibile, sono scaturite però alcune metodologie di progettazione, poi sperimentate in diversi altri centri giovani e trasferite con successo nella progettazione delle scuole.

Il valore speciale della partecipazione
Nel constatare il senso di appartenenza dei giovani a questi luoghi – racconta Hubner –  il primo pensiero fu di attribuirla al loro diretto coinvolgimento nella progettazione e costruzione degli edifici, e quindi alla difesa del loro personale prodotto creativo.
Ma questa idea è diventata meno credibile di anno in anno, man mano che un fatto diventava chiaro: mentre i giovani costruttori erano da tempo andati via, i nuovi arrivati, non ancora nati al momento della costruzione, insistevano a dire che gli edifici erano stati fatti da loro. Allora è diventato evidente che in questo processo  ciò che di essenziale arrivava dalla partecipazione non era il difendere un’opera perchè specchio di una propria idea, ma era la forza dell’edificio stesso che, attraverso le sue particolari caratteristiche, proclamava il modo unico in cui era stato fatto e lo sforzo che tante persone vi avevano investito.
L’edificio stesso sviluppava un proprio racconto, portando traccia di un’idea forte e capace di essere fatta propria anche da chi non era presente al momento della progettazione, mentre l’apporto dei tanti costruttori si rivelava un valore sostanziale per rendere il costruito più vivibile e accogliente.

“Entrare dentro un borgo storico -ricorda Hubner -porta con sè la sensazione di trovarsi a casa anche se non siamo noi ad averlo costruito. È l’architettura stessa che è in grado di trasmettere questa sensazione, certamente oggi inimitabile, ma sempre ricca di insegnamenti”.

Per secoli le persone hanno costruito per sè stesse: questo era un istinto di base in tutte le società. Oggi, con lo sviluppo della tecnica e l’avvento di procedure industrializzate, tutte le decisioni chiave sul costruito sono demandate a tecnici, costruttori, funzionari dell’urbanistica: la gestione dell’ambiente abitato richiama una lunga catena di intermediari tra l’utente e l’edificio.
La mancanza di relazione tra chi abita e chi decide come sarà l’abitazione provoca un processo di impoverimento dell’ambiente costruito ben evidente nelle attuali periferie urbane, inospitali e incapaci di generare appartenenza. Si può uccidere una persona con una casa, così come con un’ascia – ricorda Hubner citando H. Zille e rimarcando la desolante inospitalità di ambienti urbani generati e dominati prevalentemente da logiche utilitaristiche.
La proposta del progettista tedesco è allora quella di ridare senso ai luoghi recuperando la dimensione partecipativa: dal momento che le persone sono capaci di immaginare il proprio ambiente, è essenziale coinvolgerle nel processo della sua definizione.
Da qui arriva un valore speciale, portato dal riattivare la relazione tra chi abita e chi costruisce e progetta. Di conseguenza, gli abitanti diventano più importanti dell’edificio, che può diventare la rivelazione di un processo sociale, invece di restare un manufatto freddamente rinchiuso nella propria ideologia.

Un’idea di scuola
Queste riflessioni possono venire in aiuto nella progettazione di un edificio scolastico, luogo dove abita una comunità di persone giovani, in un’età di grandi cambiamenti.
In particolare, la partecipazione non solo responsabilizza chi la esegue, ma soprattutto offre a chi viene dopo l’opportunità di vivere in un ambiente realizzato in modo diverso, dove più facilmente possono rispecchiarsi le proprie emozioni e il proprio vissuto.
L’esperienza di Hubner mostra con grande chiarezza ed efficacia come una scuola possa diventare capace di rispondere a tutta una gamma di necessità educative e sociali, diventando un luogo vitale, aperto, dove i giovani possano incontrarsi anche in orario extrascolastico. La scuola omnicomprensiva realizzata a Gelsenkirchen ne è un esempio evidente.
Osservando più da vicino il metodo partecipativo- così come lo propone il progettista tedesco – se ne possono cogliere alcuni punti di forza.
Uno di questi è l’uso di tecniche narrative per catturare l’energia dei partecipanti e captare gli elementi più promettenti delle discussioni, durante gli incontri di progettazione con studenti e insegnanti. Attraverso le storie viene costruita e rappresentata l’unicità del luogo e dell’edificio, si creano immagini nella mente di chi ascolta, si arricchisce il processo di contenuto emotivo, si raccolgono e concentrano desideri e sogni.

strutturaIn questo modo l’edificio viene ad avere alcuni elementi che da una parte lo rendono unico e dall’altra gli conferiscono tendenzialmente un carattere informale, accogliente, variato. Il processo di costruire/ascoltando porta infatti naturalmente a forme di discontinuità e frammentarietà, adatte a tollerare personalizzazioni e modifiche portate anche dagli abitanti successivi. Da qui deriva un altro valore: la varietà, che rende i luoghi particolarmente capaci di parlare ai sensi ed alle emozioni, consente più percorsi di lettura, più itinerari percettivi ed esperienziali, e che, dal punto di vista compositivo, non è il risultato di un gesto espressivo del singolo progettista, ma piuttosto del lasciare spazio all’improvvisazione di altri, sempre privilegiando le relazioni tra le parti rispetto all’oggetto in sè

Come nelle città cresciute lentamente, questo carattere informale dà all’architettura un aspetto più accogliente e amabile, la aiuta ad essere abitata da molti desideri, anche da quelli che apparterranno a coloro che verranno dopo i costruttori. Spiega Hubner: “Abbiamo riflettuto a lungo per cercare di capire in cosa consista questa particolarità, e come possa nascere in maniera spontanea. Se la progettazione e la costruzione di case, soprattutto di asili e scuole, non viene vista come un atto imperioso dell’architetto ma come un processo in crescita al quale partecipano in maniera attiva con idee e suggerimenti persone diverse e soprattutto i futuri fruitori, allora nasce un ambiente capace di accogliere”.

Le scuole non sono macchine per apprendere -continua Hubner- ma possono diventare luoghi dove vivere, se invece di un monologo tra il progettista e il tavolo da disegno cioè un dialogo, imprevedibile e disordinato, ma vivo e affascinante con i suoi abitanti, dove ognuno può e deve portare le sue particolari caratteristiche in libertà, coltivando indipendenza di spirito e capacità di combinarsi con gli altri. Da questo punto di vista, una delle forme che sembrano rispondere in modo più efficace alle esigenze dell’edificio scolastico è quella del villaggio, per la sua capacità di far coesistere molti elementi, integrandoli in un insieme che offre diversi percorsi e molti modi per incontrarsi. Si vedono ancora troppe scuole – anche di nuova costruzione – segnate da lunghi corridoi, muri grigi in cemento, spazi aperti privi di luoghi di sosta: noiosi e prevedibili, oltre che inospitali. Purtroppo molti progetti di nuove architetture non rappresentano delle alternative ma anzi, come ricorda provocatoriamente Hubner, spaventerebbero qualunque pedagogista.

Gli edifici chiusi nella propria immagine tendono a non tollerare variazione e aggiunte, sono dominati da geometrie unificanti, pure e rigide e, come sostiene Blundell Jones , sembrano più adatti ad ospitare le idee che le persone. Al contrario la scuola, se vuole essere un ambiente che ispira senso di appartenenza, dovrà dialogare con la dimensione percettiva. Da questo punto di vista la varietà – come capacità dello spazio di generare relazioni e di essere vissuto in modi diversi – può suggerire migliori soluzioni rispetto ai prismi, ai corridoi, alle geometrie regolari.
L’ambiente scuola in questo modo può venire particolarmente incontro alle esigenze della vita in evoluzione e al bisogno dei ragazzi di segnare e personalizzare i luoghi, dimostrando capacità di accogliere idee, teorie in mutazione ed esecuzioni spontanee, e riflettendo la rivoluzione di mente e la ricostruzione di sè che accompagnano il passaggio all’età adulta. La relazione psicologica con gli spazi può essere aiutata anche dal fatto che l’edificio porti le tracce di interventi “non professionali”. Togliendo parte della progettazione ai tecnici per darla agli abitanti – non solo quando si va a stabilire l’organizzazione generale degli spazi, ma anche, ad esempio, nelle finiture – si viene a recuperare una dimensione che contribuisce a dare senso ai luoghi ed a generare spirito di appartenenza.
La mancanza di atti di vandalismo è solo un aspetto che sta a dimostrare la vivibilità delle scuole progettate da Hubner, e investe positivamente tutti coloro che le abitano.
Le numerose esperienze del progettista tedesco, ben descritte nel volume di Blundell Jones, lo dimostrano ampiamente: dalla Odenwaldschule (la scuola-albero)  all’istituto di Korczak, dove lo spazio è diverso e caratterizzato, fino all’esempio di Gelsenkirchen, una scuola villaggio straordinariamente complessa, aperta alla comunità e realizzata con modelli 1:10 fatti con i ragazzi.

In conclusione, ben oltre il semplice coinvolgimento di un certo gruppo di studenti – che comunque, necessariamente, non resterà a lungo nella scuola – la partecipazione proposta da Hubner rappresenta una modalità nel progettare che indica una strada efficace per realizzare scuole vivibili, pedagogicamente attive e aperte alla comunità.

 

Foto Hellerup Skole (credit G. Moscato)