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18 Ottobre 2013

Nuovi archivi fotografici per una rinnovata storiografia scolastica

di Carmen Betti – Università di Firenze

di Redazione

L’uso delle immagini, come fonti, è una pratica assai rara nella storiografia italiana sulla scuola sia del passato che di quella più recente. Credo di non essere troppo distante dal vero, se mi azzardo a dire che i contributi, in cui sono inserite immagini non solo a scopo esornativo, si contano sulle dita di una mano o giù di lì. E’ invece frequente, ma non è la stessa cosa, che le immagini vengano usate come illustrazioni, spesso giustapposte al testo senza alcun rapporto di intrinseca reciprocità con l’analisi svolta, dunque come elemento senz’altro arricchente e utile ma non indispensabile.

Sulla scuola disponiamo tuttavia di una ricca produzione storiografica che ha avuto origine, di regola, a partire dagli anni Settanta, ovvero dagli anni immediatamente successivi alla Contestazione studentesca, la quale, ironia della storia, nello stesso momento in cui ha desacralizzato la scuola, l’ha elevata a oggetto privilegiato di studio. Le denunce degli studenti, non solo ma in gran parte ispirate dall’icastica Lettera a una professoressa dei ragazzi di Barbiana e del loro maestro, don Milani, portarono alla luce insospettati meccanismi ideologici e selettivi che la fecero apparire assai diversa da quel sacro luogo del sapere disinteressato e dell’acculturazione che si era consolidato nell’immaginario collettivo sull’onda della retorica di Gentile e amici, accendendo per ciò stesso un forte desiderio di approfondimento.

Nel corso degli anni Settanta, gli studi storiografici sono venuti moltiplicandosi, a partire dalla scuola di base e poi su su fino alla secondaria, finendo persino per far ombra ai più frequentati percorsi storiografici sulle teorie pedagogiche. Anzi, viene da dire che la ricerca storico-educativa, a dispetto delle idee sulla descolarizzazione che andavano per la maggiore proprio in quel preciso momento storico, si è al contrario scolarizzata. A partire dagli anni Ottanta le ricerche hanno poi preso un’altra piega, puntando con decisione verso l’extrascuola, dove si profilavano nuovi e interessanti orizzonti e soggetti da esplorare: l’infanzia, la storia di genere, le organizzazioni giovanili, i luoghi educativi legati agli ambienti di lavoro, ai sindacati, alle parrocchie e via dicendo, senza tuttavia che l’interesse per la scuola venisse mai meno.

Ma qui non ci interessa discutere di tale andamento, quanto piuttosto delle piste di indagine seguite nella ricerca dalla storiografia scolastica, cui ovviamente si collega l’utilizzo delle fonti. Orbene, se si tiene conto che essa ha trovato origine da una forte denuncia politica, è abbastanza scontato che abbia finito per privilegiare percorsi le cui fonti principali erano i documenti istituzionali: dalle leggi alle circolari, ai programmi, ai registri, ai libri, ai quaderni stessi, ai dati statistici sulle frequenze e le bocciature, insomma, di regola, fonti a stampa o scritte di pugno o dattiloscritte, ma non iconiche.

Accanto a questa ragione per cosi dire di contesto, non va poi dimenticato che la generazione degli storici che si è dedicata di regola a tali ricerche, era non solo una generazione pre-digitale, ma anche pre-televisiva, per prendere a prestito un’ efficace espressione di Peter Burke, di conseguenza incline, per formazione, all’utilizzo della carta stampata e affini, piuttosto che delle immagini in genere o delle fotografie. Del resto se è vero che a partire dagli anni Sessanta il materiale iconografico ha catturato l’interesse dei cosiddetti storici sociali, il suo uso ha continuato ad essere ancora per parecchio tempo sostanzialmente pionieristico. Peraltro non va dimenticato che spesso vengono usate certe fonti e non altre, più che per meditate ragioni epistemologiche o metodologiche, per semplicissimi motivi di ordine pratico: perché più facilmente reperibili o riproducibili, oppure perché più visibili nei circuiti archivistici o bibliotecari. E fino a tempi recenti, il materiale documentale iconografico e in specie le fotografie sulla scuola, non erano affatto a portata di mano di chi faceva ricerca. Fortunatamente le cose stanno cambiando.

Citiamo il caso del ricchissimo fondo fotografico sulla scuola che è stato da poco riordinato con molto impegno nella ricerca stessa di specifici standard descrittivi, presso l’INDIRE di Firenze sotto la guida della dottoressa Pamela Giorgi.

Molti anche quelli privati, tra i quali vorrei mettere in risalto l’archivio della Fondazione Don Lorenzo Milani, presieduta da Michele Gesualdi, che sta riordinando e organizzando numerose fonti didattiche e fotografiche della scuola di Barbiana. Grazie ad un recente progetto condiviso a cura della dottoressa Pamele Giorgi e della dottoressa Sandra Gesualdi, presso la Biblioteca del MIUR, sarà possibile rendere evidente una parte del fondo della Fondazione Don Lorenzo Milani, ampliando gli ambiti ambiziosi del lavoro di recupero, inventariazione e messa in rete di enormi materiali documentali inediti; tali fondi, possono davvero aprire un nuovo capitolo nella storia della nostra scuola, schiudendo scenari scolastici inediti.

Essi infatti, oltre ad essere rappresentativi dell’intera territorialità nazionale, abbracciano anche un vasto arco temporale, collocandosi fra la fine dell’Ottocento e la metà degli anni Sessanta.

Proprio la loro specificità documentale, vivida e fortemente evocativa, consentirà di aprire nuove finestre sulla cosiddetta scuola in azione, quella scuola reale, da declinarsi necessariamente al plurale, ancora in larga parte inesplorata nelle sue pratiche didattiche e relazionali, nelle sue ritualità e nel suo vissuto quotidiano, nonché nella sua materialità: banchi, cattedre, carte geografiche e mappamondi, sussidi vari e poi l’abbigliamento di alunni e insegnanti e via dicendo. Certo, se è vero che «la macchina fotografica non mente», è pur vero che l’obiettivo non è oggettivo ma soggettivo, in quanto chi sceglie cosa e come inquadrare, opera una selezione della realtà circostante. In altri termini, al di là dell’apparente immediatezza e trasparenza testimoniale, le fonti iconiche e le fotografie in specie, sono sempre depositarie di una buona dose di ambiguità, di cui deve avere piena consapevolezza chi se ne avvale.

Il materiale fotografico, ancor più di altri materiali iconografici quali le stampe, le xilografie, le litografie, i ritratti, è documentario nella forma, ma soggetto a “manipolazioni” nella sostanza, ragion per cui, a dispetto delle apparenze di realtà e trasparenza, occorre tenere alta la guardia, sottoponendolo a una specie di interrogatorio per ricontestualizzarne significato e finalità. Ciò posto l’effluvio di immagini fotografiche che, previo accurato riordino, sono state recentemente restituite alla comunità scientifica, potrà davvero aprire nuovi percorsi di indagine, consentire un approfondimento o una messa a punto di precedenti indagini, nonché, incrociato con altre fonti, consentire letture più raffinate, spazzare via pre-giudizi e luoghi comuni,  cui non è facile sottrarsi neppure per chi fa ricerca con serietà e impegno.

Forse un episodio, accadutomi proprio mentre guardavo le fotografie dell’Archivio INDIRE in mostra a Firenze,  può dare meglio ragione dei filtri, condizionati e condizionanti, che usiamo senza rendercene conto nella lettura dell’ambiente circostante. Fra le molte fotografie in bianco e nero esposte, da cui sbucavano sguardi birichini e sorrisi ammiccanti, mi ha colpito in modo particolare una immagine molto naturale, dove pareva non esserci niente di predisposto e in cui campeggiava un banco da lavoro, rustico e disadorno, attorniato da quattro alunni e il loro mastro, noncuranti, almeno in apparenza, di quanto stava accadendo intorno a loro, rapiti nel lavoro di falegnameria che stavano facendo. La didascalia sottostante precisava che si trattava degli alunni della scuola elementare Brancaccio di Palermo, «aderente al Movimento di Cooperazione Educativa…anni Cinquanta».  Confesso che quella didascalia ha suscitato in me sorpresa, perché, pur senza averci mai deliberatamente pensato, mi ero fatta l’idea che l’MCE avesse per così dire attecchito al Nord e al Centro ma non avesse avuto riecheggiamenti al Sud. Non saprei dire perché ero giunta, inconsapevolmente, a quella conclusione, ma vi ero giunta. Dunque, anche da questo banale episodio, si può capire che il ricco materiale fotografico ormai disponibile potrà davvero offrirci l’occasione per ripensare, da altri punti di vista, anche inusitati e suggestivi, la nostra scuola, utilizzando un diverso materiale documentale e nuove chiavi di lettura.