di Giovanni Biondi
12 Dicembre 2006
Il dibattito internazionale sul ruolo che le ICT giocheranno nei prossimi anni nella scuola e le trasformazioni profonde che avverranno richiede anche al nostro paese di impostare una politica forte centrata su questi temi. Quello di cui abbiamo bisogno è quindi soprattutto una visione nuova sul futuro dell’istruzione e della formazione: abbiamo un modello scolastico che si è sviluppato in rapporto ad una società industriale che oggi si è profondamente e radicalmente trasformata. A fronte di questi cambiamenti la scuola ripropone il proprio ambiente, gli stessi strumenti e metodologie sostanzialmente uguali a quelli di venti, trenta, cinquanta ed anche cento anni fa: la classe, i banchi, la lavagna, la cattedra, la lezione, i libri etc…
Il dibattito scientifico che si è sviluppato in Italia su questi temi, a parte poche e sporadiche eccezioni, presenta in genere soltanto gli echi tradotti di quello internazionale o rimane ancorato ad aspetti secondari e settoriali dell’uso delle ICT. Mentre siamo quindi a discutere se le tecnologie fanno bene o male ai nostri studenti, se siano o meno contrarie alla cultura con la C maiuscola, rappresentata dal modello liceale classico, a cui siamo affezionati soprattutto perché associamo ad esso la nostra gioventù, la stessa Europa con gli obiettivi di Lisbona, i piani pluriennali varati in molti altri paesi, indica la necessità di una cambiamento strutturale della scuola. Questa volta sono in gioco elementi di base che intervengono non tanto nel disegno del sistema, nell’architettura del 5+3+5 o 7+5, cui si appassiona il dibattito politico, quanto sul linguaggio, sulla comunicazione, sui contenuti, sulle metodologie, sulla organizzazione della didattica, cioè tutti quegli elementi che fanno la scuola. Se volessimo usare una metafora calcistica, la ricerca del modulo, sia il 4-4-2 o il 4-3-3, ha certamente una sua incidenza sul risultato ma molto di più contano i giocatori a disposizione, la loro padronanza dei fondamentali, la fantasia, la capacità tattica, il rapporto con la tifoseria e con l’allenatore.
Ora se le ICT, o le TIC con la sigla italiana, possono:
- trasformare il ruolo dell’insegnante,
- consentire nuove organizzazioni dell’ambiente scolastico (le cosiddette scuole senza classi),
- rendere più familiare ai ragazzi nati nell’epoca digitale (digital native), la scuola, con i suoi contenuti e strumenti di lavoro,
- promuovere la comunicazione,
- favorire un nuovo modo di apprendere, sottolineando l’apprendimento rispetto all’insegnamento e così mutando il ruolo degli studenti
Non possiamo semplicemente confinarle nell’aula o nel laboratorio di informatica oppure considerarle una materia da aggiungere al curriculum. In questo modo la scuola ha, in pratica, esorcizzato il potenziale valore innovativo dell'ICT, non accettandone la sfida ma contenendone l'impatto.
Scrivevano Papert e Caperton nel 1999 che la società dell’informazione per un verso richiede e per l'altro rende possibile nuove forme di educazione e che per tradurre in pratica questi scenari non saranno determinanti, come invece spesso si crede, investimenti, tecnologie, standards etc.. ma: “The primary lack is somethingh very different – a shortage of bold, coherent, inspiring yet realistic visions of what education could be like 10 and 20 years from now. ["La prima insufficienza è qualcosa di ben diverso: la mancanza di coraggiose, coerenti, stimolanti eppur realistiche visioni di come l'educazione potrebbe essere fra 10 o 20 anni"].
Di questa vision oggi abbiamo ancora bisogno per governare, favorire, sostenere la trasformazione della nostra scuola e partecipare alla crescita europea, non certamente di uno sterile dibattito pseudo-tecnologico su standard scorm e piattaforme.
È infatti ormai chiaro che le piattaforme di e-learning e gli standard, con le loro logiche da mattoncini del lego da "conoscenza auto consistente" che si combina e ricombina in modo meccanico secondo una visione semplicistica della costruzione delle conoscenze, sono lontane dalle problematiche che pone la scuola. La stessa linearità metodologica di tale modello, centrato sui contenuti e sugli standard adottati in modo generalizzato, non solo risulta inadeguata ma, a lungo termine, rischia di vanificare le aspettative di reale trasformazione, se ripropone in chiave digitale lo stesso paradigma della scuola in presenza.
La scuola chiede soprattutto lo sviluppo di ambienti aperti centrati su:
- la possibilità reale di costruzione delle conoscenze
- un ruolo "attivo" dello studente
- l’utilizzo di funzioni, ambienti ed asset, e elementi primari che si differenziano rispetto ai LO maggiormente strutturati
- la sicurezza che è oggi uno dei problemi che spaventa l'insegnante ed allontana da un suo libero dalla rete.
E poi il linguaggio: quello che può stare su carta non deve rappresentare se non una percentuale minoritaria dei contenuti online. Se progettiamo per la carta, inevitabilmente i nostri contenuti torneranno in carta, passando dalla stampante senza realizzare alcuna trasformazione. Dobbiamo invece promuovere una fase sperimentale in grado di dare molte delle risposte necessarie per sostenere l’innovazione in atto, che diversamente rischia di prendere strade secondarie e di fermarsi sulla soglia dell’innovazione, in genere agli aspetti di istruzione all'uso tecnologico. Una delle strade possibili è quella di affiancare alla sperimentazione di ambienti online direttamente con gli studenti una formazione continua, anche universitaria, degli insegnanti capace di offrire molteplici punti di vista e coagulare vari e diversi settori disciplinari.
Per approfondimenti:
Sugli standard
Sugli ambienti di apprendimento
Sullo spazio e tempo futuri della scuola
Sulla Logica dei "mattoncini lego", si può vedere Giuseppina Cannella e Elena Mosa, Learning Object: contenuto o contenitore? Analisi della riusabilità didattica e dei processi che si innescano nel rapporto con l’ambiente, Quaderno degli Annali dell’Istruzione, n. 110-111 (Vol. II), Le Monnier, Firenze, 2004
|