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PROFESSIONE DOCENTE

Edgar Morin, Educazione e globalizzazione

In un mondo che spinge a differenze e specializzazioni di saperi, la scuola può riuscire a ricomporre le conoscenze?

di Patrizia Lotti
13 Settembre 2003

La domanda emerge dalle riflessioni di Morin, nell'intervista filmata realizzata, nel mese di Gennaio 2003, a cura di Eugenio Paterlini, P. Nasutti, A. Corradini in Francia in nome dell'Assessorato servizi e pari opportunità del comune di Reggio Emilia. L'intervista è stata presentata, per la prima volta, al convegno "Progettare Futuri" del marzo 2003.

E' stata poi riproposta al convegno "Per un'educazione capace di futuro. Sulle rotte dell'arcobaleno", organizzato dal Centro Educazione Mondialità, a Viterbo dal 23 al 28 Agosto e al salone Documentaria, promosso da CDE-CDH (Centro Documentazione Educativa – Centro Documentazione Handicap) del comune di Modena dal 1° al 6 settembre.
La traduzione della trascrizione scritta della videointervista è stata realizzata da Annalisa Zinani ed Eugenio Paterlini. 

Grazie alla cortesia degli autori e dato il forte legame che le riflessioni di Morin hanno con il tema della mondialità e del confronto fra culture diverse, riportiamo l'intervista in questo spazio, confidando nelle suggestioni che le sue parole possono suscitare in chi sperimenta la quotidianità dell'integraizone.

La speranza nell'improbabile, concetto chiave di questa intervista, era già stato espresso da Edgar Morin in "Société-monde contre terreur-monde", articolo pubblicato su Le Monde il 22 Novembre 2002. Contributo che è stato tradotto e adattato da Emanuela Martini per Ernesto Balducci: attualità di una lezione, numero speciale di Testimonianze, gennaio-aprile 2002 e del quale riproponiamo i passaggi conclusivi.

- In un’epoca in cui la divisione e la specializzazione dei saperi vengono proposte come l’unico modo efficace di produrre conoscenza, secondo lei quali caratteristiche dovrebbe avere un modello di scuola che invece punta alla ricomposizione delle conoscenze? E come è possibile in questo universo di super-specializzazioni e di comparti garantire il diritto alla democrazia della conoscenza?
Occorre chiarire bene questa questione: Oggi si parla di specializzazione della conoscenza nel senso che se le conoscenza è acquisita dalla specializzazione allora può esser in seguito condivisa, ma se rimane rinchiusa e resta a disposizione degli specialisti, si può dire che né la cultura né le persone ne possono approfittare.
Penso che il vero problema sia quello di fornire delle conoscenze già in partenza integrate in un certo numero di problemi fondamentali e globali.
D’altra parte questo è il senso delle proposte che esprimo anche nel mio libro a proposito de "I sette saperi " che penso voi conosciate in Italia. In questa opera mostro quali sono i problemi fondamentali e globali intorno ai quali potrebbero articolarsi le conoscenze specializzate, cosa che è d’importanza capitale.

- Come condividere la conoscenza specializzata?
Ripeto che se si considera, ad esempio, il problema dell’identità della condizione umana si è obbligati a far convergere su questa questione tutte le discipline, non solamente le scienze umane, ma anche le scienze naturali comprendendovi anche la letteratura e la poesia. Penso che la condivisione della conoscenza sia possibile in base alla domanda che si pone, vale a dire che, se si parte dai problemi fondamentali e globali, si riescono ad utilizzare le conoscenze specifiche, certo bisogna fornire agli specialisti una formazione fondamentale, nella quale si integrino le loro specializzazioni.
Saeman ha detto molto giustamente che più si utilizza il proprio spirito e il proprio cervello come fosse una macchina a porre e risolvere dei problemi generali, più si sviluppa la capacità di trattare i problemi peculiari. Bisogna dunque sviluppare una cultura generale affinché si possano sviluppare delle buone culture specifiche.
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- La frammentazione del sapere riguarda anche la questione del potere. Il potere usa per prendere decisioni, le conoscenze di specialisti, ma poi sembra che manchi chi è in grado di "fare sintesi" di queste conoscenze e ciò che ne esce sono spesso decisioni contraddittorie fondate su teorie che non comunicano, come una casa nella cui costruzione falegnami, muratori, elettricisti, procedono facendo il loro "pezzo di lavoro" senza considerare i tempi e le specialità dei colleghi. Quale casa ne uscirà mai?
La vostra domanda porta con sé la risposta. È evidente che la casa non sarà ben costruita. È evidente che non si possono lasciare commissioni composte da specialisti per trattare dei problemi globali, perché questi specialisti non hanno imparato a contestualizzare il loro sapere, e non hanno imparato a globalizzarlo. Quindi è evidente che si torna al problema della ri-educazione di tutti.

- Noi lavoriamo in servizi educativi extrascolastici e le nostre proposte educative si scontrano spesso contro un conformismo cognitivo che classifica e categorizza ogni cosa; considera il tempo solo come "tempo produttivo" e svalorizza il tempo speso per costruire un dialogo e un ascolto tra educatori (adulti) e ragazzi, tra ragazzi nel gruppo ecc.. I nostri educatori vorrebbero sapere da lei cosa ne pensa: da cosa è provocato questo conformismo cognitivo (che comprende anche una certa interpretazione del tempo)? E come si fa a uscirne fuori?
Innanzitutto il conformismo proviene dalla cieca accettazione delle idee che sembrano scontate o evidenti.
Qual è l’idea evidente del conformismo dal punto di vista della conoscenza? E’ che la sola conoscenza pertinente è quella acquisita nelle specializzazioni e che al di fuori di questa non vi possono essere che proposte confuse, superficiali e senza interesse.
Ci si deve accorgere che bisogna articolare e collegare tra loro le conoscenze, e che il collegarle non è superficiale ma, al contrario, vitale. È così che noi oggi siamo permeati da questo conformismo della conoscenza. Solo se si riforma il modo d’insegnare e quindi di pensare, è possibile reagire al conformismo. (
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- Le forme brevi della comunicazione (immagini, suggestioni, pubblicità, sottotitoli dei giornali) invitano a non soffermarsi a non approfondire l’informazione e favori-scono la creazione di un pensiero corto. In che modo queste forme comunicative possono incidere sul modo di apprendere e sulle strategie di organizzazione del pensiero in particolare nei ragazzi e nei giovani?
Penso che la missione propria dell’insegnamento sia di fare il contrario di quello che fanno i media. La tendenza a semplificare ed a ripetere è un atteggiamento contro cui la nostra cultura deve reagire.
Penso che se l’insegnamento non porterà una risposta a questo modo di vedere le cose e vedere il mondo, noi saremo effettivamente contaminati da quel modo di pensare che ho indicato.

- Vivere nella complessità culturale e sociale ci porta a vivere situazioni ricche di rapporti e relazioni ma anche comportamenti imprevedibili legati alla libertà dei singoli. Con tale situazione siamo chiamati ogni giorno a costruire un equilibrio soddisfacente fra il nostro tempo individuale, i nostri desideri, bisogni e progetti, e il tempo sociale legato alle istituzioni e alle loro regole. E’ un equilibrio che raggiungiamo con difficoltà sempre maggiore e attanagliati in questa difficoltà restano soprattutto i bambini e i ragazzi. Gli educatori, dal canto loro si trovano quotidianamente a gestire questa contraddizione che si produce nel sistema famiglia, nel mondo del lavoro, della scuola nelle relazioni all’interno della città.
Quale ruolo, a suo parere, possono giocare gli educatori per aiutare i ragazzi ad orientarsi in questa complessità?
Tutto ciò è giustamente un accento che l’educazione pone sulla conoscenza e sull’apprendimento della complessità.
Penso che si debba educare ad una conoscenza complessa e a partire da questa bisogna insegnare un pensare complesso. Nel momento in cui ci si trova in questa prospettiva, la complessità comporta delle incertezze e bisogna imparare a vivere nell’incertezza.
La complessità comporta degli antagonismi e dei conflitti e serve un modo di pensare che io chiamo dialogico per poterli affrontare con efficacia. Torniamo ancora una volta al problema di base: una riforma del modo di conoscere e del modo di pensare. Se non ci sarà questo tipo di riforma, siamo destinati ad incamminarci verso la degradazione di ogni cosa.
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- Diverse volte lei ha sostenuto che, sia per quanto riguarda l’evoluzione della storia, sia per quanto riguarda le situazioni educative, l’osservatore è tenuto, mentre osserva, ad osservare anche se stesso, ad auto-osservarsi. Cosa consiglia agli educatori per mettere in pratica questa teoria.
Bisogna innanzitutto che essi integrino in sé stessi la necessità di questa auto osservazione. Come integrarla in se stessi?
Bisogna sapere che la conoscenza non è mai un riflesso delle cose, non è una fotografia, è sempre un’interpretazione, una traduzione o talvolta una ricostruzione. Una volta chiarito ciò possiamo iniziare a pensare che queste traduzioni, e queste ricostruzioni sono state fatte da un individuo, da un soggetto. Quindi lui stesso deve osservarsi nel modo in cui conosce e pensa. Nello stesso modo uno storico che racconta la storia del passato riscrivendola, parla della sua esperienza, del tempo che ha vissuto per proiettarla nel passato e per cercare di comprenderla. Anche qui non vi sono solo dei fatti oggettivi, vi è anche un’interpretazione.
Quando sappiamo che non possiamo sfuggire all’interpretazione, allora dobbiamo cercare di capire come funziona questa interpretazione . Secondo me l’auto-osservazione è una capacità che si deve acquisire con la pratica; inizialmente è difficile ma deve divenire abituale.
Vi sono degli scrittori che hanno praticato questa auto osservazione in Francia, il più famoso è Montaigne. L’auto osservazione è un’attività estremamente difficile perché si ha spesso tendenza a autoingannarsi, a deformare i propri ricordi, e a vedersi in un ruolo positivo nelle relazioni che abbiamo avuto. E’ certo che è un punto di vista psicologico ma è altresì un punto di vista epistemologico. Io ho scritto :" Non c’è conoscenza senza integrazione della conoscenza..",.. "non solo l’oggetto, ma anche l’integrazione del soggetto nell’oggetto", è un punto di vista epistemologico fondamentale. Se l’educatore ha integrato in sé questo punto di vista, allora potrà procedere nel verso giusto.
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- Il cambiamento demografico nella struttura delle famiglie e dell’organizzazione delle nostre città ha favorito nella nostra Europa opulenta la diffusione della paura mettendo in grande difficoltà la cultura della solidarietà, dell’accoglienza, dell’accettazione delle differenze e della tolleranza. Qual è, secondo lei il compito di un educatore di fronte a queste sfide del nostro tempo?
Innanzitutto ritengo che su queste questioni sia necessario concentrarsi su diversi fenomeni: il primo, è che la nostra civiltà, sviluppando l’individualismo e con esso le sue ricadute positive, quali l’autonomia e la responsabilità personale, ne ha contestualmente sviluppato i lati negativi, soprattutto la tendenza all’egocentrismo distruggendo così tutte le forme di solidarietà e di comunità tradizionale che esistevano nei paesi, nei comuni, nei quartieri, nelle grandi famiglie, e via. Oggi viviamo in una società in cui le forme di solidarietà concrete sono state distrutte a favore di forme di solidarietà più astratte quali, ad esempio, quelle dell’assistenza sociale.
In secondo luogo pensiamo all’accettazione delle differenze e della tolleranza: il nostro modo di conoscere non riconosce abbastanza la ricchezza della diversità. Vi è una diversità di cultura che non ha ricchezza per l’umanità, ma la diversità degli individui costituisce una ricchezza per la società.
La speranza della nostra società è che a scapito del conformismo vi sono sempre individui che resistono al conformismo e che in tal modo portano con sé il germe di una vera conoscenza e di una vera critica.
Tornando alla tolleranza, bisogna capirne le fondamenta. Ve ne è una di tipo etico, un po’ come diceva Voltaire, quando parlava in contradditorio dicendo "..Signore, le vostre idee sono ignobili per me, ma sono pronto a farmi uccidere affinché voi abbiate il diritto ad esporle". Ciò significa che vi è un’etica di tolleranza per cui noi dobbiamo accettare di soffrire che un’idea intollerabile per noi, beninteso, sia espressa perché è necessaria alla libertà.
Il secondo fondamento della tolleranza, riguarda la democrazia. La democrazia non è solo la legge maggioritaria, democrazia è il gioco della diversità, il gioco dei conflitti di idee; non un conflitto fisico, sia chiaro. Una democrazia deve al contempo proteggere e rispettare le minoranze. Quindi la maggioranza deve tollerare delle idee che normalmente sarebbe pronta a rifiutare.
Il terzo fondamento della tolleranza lo ritrovo in una formula di Pascal, che è stata ripresa da un grande fisico del XX secolo; Pascal diceva " …il contrario di una verità non è un errore, è un’altra verità". Certamente stiamo parlando di verità profonde non di verità banali come una seggiola, una poltrona, quindi con questo si vuol dire che dobbiamo riconoscere la parte di verità minime (specifiche) o la parte di verità diventate follia, nelle idee degli altri. E’ così che l’educazione alla tolleranza è un’educazione difficile e la tolleranza regredisce non appena si hanno delle regressioni politiche: in una situazione di crisi o in clima di guerra, come il clima di guerra tra Israele e Palestina, la possibilità di tollerare per Israele è messa a dura prova, così come durante la guerra del 1914-1918 la tolleranza diminuì notevolmente. Le situazioni regressive favoriscono l’intolleranza e purtroppo noi stiamo subendo una situazione regressiva dal punto di vista storico.
L’unico antidoto in questo contesto ostile per ridare fiato e speranza alla tolleranza, è il tentativo, anzi la necessità di ricomporre una cultura della solidarietà poiché la solidarietà come la responsabilità sono le due risorse dell’etica e del senso civico.
Se non riusciamo a resuscitare solidarietà e responsabilità, andremo verso lo sgretolamento e la regressione.
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- Il problema della comunicazione oggi, non è più quello di reperire sufficienti informazioni, ma di selezionare quelle importanti da quelle superflue, quelle vere da quelle false; infatti la comunicazione è talmente invadente e veloce che non ci lascia i tempi necessari per il controllo dell’errore.
Il rischio è che se tutti si confondono assumendo per vere informazioni false, allora queste ultime diventano vere.
Lei cosa ne pensa? Conosce qualche antidoto (credo che noi in Italia ne abbiamo particolarmente bisogno)?
Il solo antidoto alla falsità delle informazioni sta nella pluralità delle fonti d’informazione. Se non si ha tale pluralità delle fonti si è costretti a credere ad una sola fonte, senza avere la possibilità di fare chiarezza. Per esempio per lungo tempo non si è saputo cosa è accaduto in Cina durante la rivoluzione culturale, per decine di anni non si è saputo cosa è accaduto in URSS, nel momento in cui vi erano campi di concentramento nazisti non si sapeva cos’era accaduto; quindi la pluralità delle fonti d’informazione è fondamentale per indagare l’errore.
Ora, il secondo problema è come distinguere l’informazione secondaria da quella importante; qui ci troviamo davanti al problema dell’organizzazione della conoscenza. Se si è in grado di organizzare la conoscenza si possono individuare i noccioli centrali distinguendoli dalle informazioni contagiate. Penso alla formula del poeta Eliot che cito spesso, il quale recita " qual è la conoscenza che perdiamo nell’informazione", e "qual è la saggezza che perdiamo nella conoscenza", perché le informazioni che cadono a pioggia senza essere contestualizzate né ponderate, rappresentano il contrario della conoscenza, sono rumori che si dimenticano il giorno dopo.
Bisogna poter contestualizzare l’informazione. E’ un lavoro molto difficile, e aggiungerei che è questa la vera missione di chi fa informazione oggi.

- Perché nella società complessa è più vera la convinzione che per dimostrare una verità o una ragione non serve argomentare o spiegare , ma è più utile ripetere…ripetere?
Le affermazioni e le immagini ripetute anche ossessivamente alla fine sembrano convincere. La banale semplicità di una ripetizione continua, è più efficace di un buon ragionamento complesso?
È evidente che la tendenza di molti media televisivi particolarmente, è di avere paura dei ragionamenti complessi, la paura di annoiare l’auditorium; è così che il terreno di riflessione è estraneo alla televisione. Io credo che il terreno fertile per la riflessione possa resuscitare in primis nelle televisioni periferiche, così come esiste una radio culturale, può altresì esistere una televisione culturale che controbilanci l’effetto delle televisioni dominanti. In ogni modo non sono solo i media ad essere accusati, anche nelle scienze per molto tempo si è creduto che le verità scientifiche si basassero sulla conoscenza di leggi semplici; si pensava che la complessità dell’universo fosse spiegata dalla semplice apparenza delle cose e che la semplicità fosse il fondamento delle cose stesse. Un errore simile ha regnato in tutti i settori. Per questo ora è difficile riparare in qualche modo all’"oscuramento" a cui siamo stati condotti da questi errori. (torna su)

- Lei ha spesso sostenuto che la cultura umanistica e quella scientifica non debbano considerarsi come separate ma come unite da soliti legami e rimandi reciproci.
Ci potrebbe spiegare i benefici che questa visione del rapporto fra saperi porta nella scuola, nel sistema dei servizi e di produzione delle città?
Siamo davanti ad una tragedia culturale.
Per ciò che concerne la cultura scientifica e quella umanista, infatti, la separazione oggi è dominante.
Perché parlo di tragedia: perché la cultura umanista viene privata degli innumerevoli conoscenze apportate dalle scienze, ma la cultura scientifica è privata del potere di riflessione che è proprio della cultura umanista. Ci troviamo quindi di fronte a due culture entrambe mutilate che avrebbero invece bisogno di interconnettersi in modo organico, secondo il principio stesso del pensiero complesso.
Si può giungere a questo ragionamento anche pensando al problema dell’identità umana: se voglio conoscere l’essere umano, le scienze umane non sono sufficienti, serve anche la letteratura, il romanzo perché grazie a questo posso capire gli individui concreti, nel loro contesto nella loro storia, nel loro ambiente, nelle loro passioni….. Quindi noi abbiamo bisogno in qualsiasi momento di legare gli albori della cultura scientifica con quello che, di prezioso ci dona la cultura umanista.
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- Secondo lei perché nella società contemporanea si è cosi avvezzi a parlare di certezze e di ottimismo respingendo qualsiasi forma di dubbio e di incertezza che, a nostro parere, costituiscono invece il sale dell’educazione?
Credo che chi propaga queste idee viva in una visione unidimensionale del mondo, che non voglia veder altro che le curve economiche, che preferisca mascherare l’incertezza del tempo.
Non solo il dubbio fa parte dell’educazione, ma andando oltre, tutte le scienze oggi insegnano a dover trattare e negoziare con l’incertezza; che si parli di microfisica o di scienze umane.
Dobbiamo insegnare che il destino di ogni individuo è votato all’incertezza a partire dalla sua nascita. Non ci è dato conoscere le malattie di cui saremo affetti, la data della morte, non si sa se saremo felici in amore. Anche la storia è diventata incerta. Si è pensato a lungo che la storia fosse una locomotiva che seguisse senza sosta le rotaie che la conducevano verso un avvenire migliore. Oggi si sa che il domani è del tutto inatteso. Sappiamo che ciò che arriverà è l’imprevisto. Non possiamo che rafforzare i caratteri educandoli all’incertezza. (
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- Gli avvenimenti dell’11 Settembre, secondo lei, hanno cambiato o stanno cambiando le idee di democrazia, di società civile, dei rapporti fra popoli?
Secondo lei quali sono le domande che questi avvenimenti pongono al mondo dell’educazione? Sono cambiate le idee di pace e di guerra?
Vedo che il concetto di guerra è profondamente cambiato: uno stato come gli Stati Uniti dichiara guerra non più ad un altro stato come era sempre accaduto, ma ad un’organizzazione quasi invisibile che non ha ne territori propri, né uno stato fisico. E’ quindi evidente che questa situazione non obbedisce più ai criteri della guerra; non la si può nemmeno ridurre a semplice polizia poiché per affrontarla efficacemente i metodi polizieschi normali non sono sufficienti.
Da quel giorno è apparsa una nuova configurazione del mondo
Direi che dall’inizio del millennio vi sono stati degli avvenimenti molto significativi dal punto di vista planetario. Parlo delle emergenze della coscienza civile planetaria che si manifesta attraverso l’attività di numerose associazioni non governative, che hanno manifestato a Sidney, a Porto Alegre e in altri posti. Questi, a mio parere, non sono ambienti dell’antimondializzazione, ma di intermondializzazione. Dobbiamo prendere coscienza che siamo in una fase di mondializzazione plurale, non solo economica: mondializzazione delle idee, delle culture, siamo di fronte dunque a diversi tipi di mondializzazione che, però faticano a comunicare fra loro. In questo quadro noi vediamo sempre più la necessità di una nuova società che tuttavia non riesce ad emergere, perché è la mondializzazione economica che, pur avendo creato l’infrastruttura della società mondiale - dal momento che il pianeta è un territorio con la propria economia – non è stata tuttavia in grado di tutelare questa società perché la sua economia manca completamente di regolamentazioni e non possediamo alcuna istituzione capace di regolamentare i fenomeni più pericolosi del pianeta, quali il degrado della biosfera, la proliferazioni delle armi atomiche.
Più ci accorgiamo che il mondo sta entrando in uno stato di caos, più possiamo prendere coscienza che sono davanti a noi molti pericoli per l’umanità, Tuttavia mi pare che non siamo ancora sufficientemente consapevoli che andiamo o verso una situazione catastrofica o verso una metamorfosi molto difficile. Ciò che manca al nostro sistema educativo è un insegnamento dedicato all’epoca "planetaria" che noi viviamo, nulla ci insegna lo stato del mondo in cui siamo; prendere coscienza di questa epoca planetaria è una grande necessità con le difficoltà che comporta la sua comprensione.
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- Ancora una domanda: ci sarebbe molto gradita una sua riflessione a proposito dei movimenti antagonisti che incrociano il nostro tempo e la cronaca quotidiana, portando con sé una visione di società organizzata a partire dalla dimensione locale per giungere poi ad una dimensione globale.
Ho detto e scritto che stiamo vivendo un processo di globalizzazione plurale e che ciò che sarebbe necessario oggi è una regolamentazione e un controllo delle fluttuazioni dell’economia che è abbandonata a se stessa sotto l’egida delle dottrine neo liberali. Credo che bisognerebbe sviluppare una coscienza civica propria della comunità planetaria. Ho trattato di questi argomenti in uno dei miei recenti volumi e penso che vi siano delle idee interessanti: c’è stata una globalizzazione che è erede dell’umanesimo europeo, delle idee di Bartolomeo de Las Casas che diceva che gli indiani d’America erano degli esseri come gli altri, di Montaigne e della filosofia Illuminista, delle internazionale socialista, dell’idea degli stati uniti del mondo proposta da Victor Hugo, in breve vi è una corrente universalista d’umanesimo planetario che oggi è indispensabile. Se questa corrente d’umanesimo planetario prende corpo sarà questa che potrà guidare la mondializzazione, diversamente questa andrà verso la catastrofe. (torna su)

- Qual è l’idea che voi trasmettete a politici, agli insegnanti, agli educatori circa la vostra idea di futuro nel quadro del processo di mondializzazione che stiamo vivendo?
Rispondo anche alla vostra domanda relativa al futuro,….Provo a rispondere assumendo come categoria concettuale quella del futuro inteso come probabilità.
Il termine probabilità significa che per un osservatore in un certo posto e in un determinato momento, come noi oggi, ad esempio, con le migliori informazioni possiamo vedere ciò che è probabile. Cosa è probabile? Ciò che è probabile è il caos economico, il degrado della biosfera, dei conflitti che possono divenire terribili con l’utilizzo delle armi nucleari che si sono diffuse. Le probabilità sono molto negative, ma nella storia è talvolta accaduto l’improbabile in senso positivo: ad esempio quando l’Europa era occupata dalla Germania di Hitler, la Francia era occupata, le truppe naziste erano arrivate fino alle porte di Mosca e di Leningrado, la probabilità maggiore era che ci sarebbe stata una dominazione nazista molto duratura su tutta l’Europa. In realtà in pochi mesi le cose sono cambiate perché c’è stata una resistenza insperata di Mosca che ha respinto le truppe tedesche, perché c’è stato un Pearl Harbour e l’America è entrata in guerra, …in tre mesi, quindi, le probabilità sono cambiate.
E ancora a ritroso nella storia, pur essendo molto probabile che la piccola Atene venisse schiacciata dalle armate persiane per ben due volte Atene ha resistito. Grazie a questa resistenza ha potuto creare la democrazia e la filosofia. E’ certo, quindi che l’improbabile capita nella storia.
Circa la mia visione del futuro rispondo dicendo che io ripongo speranza nell’improbabile.
La mia seconda riflessione sull’avvenire è questa: quando un sistema non è capace di gestire problemi vitali, allora il sistema è destinato a morire e a disintegrarsi, a meno che non vi sia in esso l’energia per creare un meta-sistema più ricco che sia al contrario capace di trattare questi problemi vitali. È esattamente questa la situazione in cui ci troviamo.
Evidentemente noi non lo possiamo mai prevedere in anticipo, ma anche qui la storia ci conforta: anche in passati molto remoti, quando delle società arcaiche senza stato, senza agricoltura, senza città, si sono raggruppate in 5 poli nel mondo circa 7-8 mila anni fa, anche allora vi è stata una metamorfosi che sarebbe stato impossibile sia prevedere che concepire.
Oggi è necessaria una metamorfosi, accadrà? Non è dato saperlo.
Più i pericoli saranno visibili alla coscienza più si creerà un movimento per lottare contro la catastrofe. Penso che la metamorfosi avverrà in seguito all’incontro tra diverse forze che sono su questo pianeta. E’ una speranza, non è assolutamente una certezza.
Credo convenga pensare che andiamo verso una possibile catastrofe, come ce lo fanno pensare tutti gli ultimi avvenimenti nel circolo vizioso infernale che sta diventando planetario, mi spiego: c’era un circolo vizioso infernale tra Israele e la Palestina, ma a partire dall’attacco in Kenya da parte di Al Quaeda c’è stata una estensione del circolo vizioso israelo-palestinese, fino al coinvolgimento di tutto il pianeta. C’è ancora un’aggravante. C’è un manicheismo fanatico, come quello di Al Quaeda, che sfrutta la situazione di estrema diseguaglianza in cui vive tutto il mondo arabo musulmano per far emergere continuamente candidati al martirio e alla Guerra Santa. Sul versante occidentale ciò provoca un’idea di Guerra Santa contro il male e tutto si aggrava, salvo, come dicevo prima l’improbabile ma non impossibile metamorfosi.

- E per concludere, un augurio per tutti gli educatori di Reggio Emilia
Io possiedo una massima, cioè che " tutto ciò che non si rigenera, degenera".
Il mio augurio è che la rigenerazione dell’educazione e quindi degli educatori stessi, e la coscienza della gravità e della grandezza dei problemi, debba aiutarli.
Il ruolo dell’educazione ha un’importanza capitale per riformare gli spiriti, e il mondo; ma certo bisogna riformare l’educazione perché questa sia capace di fare riforme a sua volta.
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