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Rigenerare l'educazione per educare diversamente

Quattordici laboratori per formare e formarsi alla mondialità organizzati a Viterbo dal Centro Educazione alla Mondialità lo scorso agosto

di Patrizia Lotti
01 Ottobre 2003

logo del convegno CEM Mondialità"Per un'educazione capace di futuro. Sulle rotte dell'arcobaleno" è stato il titolo del quarantaduesimo convegno organizzato dal CEM, a Viterbo dal 23 al 28 Agosto 2003 e che ha riunito circa trecentocinquanta educatori. Suo tramite il CEM ha inteso proporre agli educatori "l’impegno di 'rigenerare l’educazione', condividendo le esperienze e partecipando dal basso ad un cammino comune, stringendo alleanze di resistenza e di dissidenza, aprendo varchi alla contaminazione, alla mescolanza e al meticciamento, per iniziare e continuare nella direzione dell'educare diversamente". Il titolo e il logo del convegno riportava l'arcobaleno, visto come "stella cometa dell'educazione". Il tema del convegno è stato illustrato dal prof. Franco Cambi, docente di Pedagogia Generale all'Università di Firenze e Presidente dell'IRRE Toscana (vedi Franco Cambi: il futuro dell'educazione). Dopo la visione della videointervista di Edgar Morin i partecipanti si sono suddivisi nei lavori dei quattordici laboratori guidati da esperti, che li hanno impegnati dal 23 al 28 agosto nella elaborazione di percorsi alternativi nel campo della musica e della narrazione, del disegno e dell’immagine, della poetica e della "mappatura del territorio", della drammaturgia e della "ricostruzione della memoria", dell’esperienza del sacro e della comprensione dell’identità culturale, della corporeità e del gioco. Gli atti del seminario saranno disponibili sul numero monografico di ottobre-novempre della rivista CEM-Mondialità, disponibile anche online sul sito CEM. Ogni laboratorio si è aperto con una proposta di riflessione e avvio di un confronto comune; attraverso i titoli, sotto riportati, è possibile visualizzare il percorso proposto dai singoli esperti.

Articolo a cura di Patrizia Lotti - Indire (p.lotti@indire.it)


Per una pedagogia della resistenza. Tracce utopiche per educare a resistere
A cura del Gruppo di Pedagogia della Resistenza
Condotto da Raffaele Mantegazza, Walter Baroni, Andrea Marchesi

Perché non è uno scherzo sapere continuare, Francesco Guccini

Interno. Notte.
La cucina aspetta in un silenzio irreale come se qualcosa di  definitivo aleggiasse nell'aria.
L'uomo ed il ragazzo si fronteggiano seduti al vecchio tavolo  di formica rossa.
L'uomo - le mani callose intrecciate sul tavolo - guarda nel vuoto; davanti a lui nel portacenere di cristallo una sigaretta e il suo fumo nell'aria immota.
Il ragazzo, le mani sulle ginocchia, fissa l'uomo in silenzio -uno sguardo che forse l'uomo non può sostenere.
Dalla finestra aperta a metà si vede sorridere al buio la luna.
L'unica lampadina diffonde nella stanza una luce fredda e malata.
L'uomo prende la sigaretta nella mano destra, tra l'indice e il medio, tira alcune boccate di fumo, poi con un gesto nervoso  la schiaccia nel portacenere.
Il ragazzo giocherella con la fibbia della cintura, poi si  passa una  mano sulla gamba, grattando con l'unghia una macchia  verdastra sui jeans.
Un alito di vento muove gli alberi nel giardino e fa appena  tremare le imposte.
Le cromature del rubinetti mandano riflessi nella luce artificiale - riflessi non visti nell'atmosfera indaffarata della cena  ma che ora trasformano la stanza in qualcosa di alieno.
Le mani grosse e pesanti dell'uomo stringono il pacchetto di sigarette; quelle mani che solo avantieri avrebbero forse slacciato la cinghia o magari scagliato uno schiaffo od un pugno. Ma stasera è diverso.
Le mani piccole e bianche del ragazzo continuano a giocare con la fibbia - dimentiche dei giochi in cortile o nell'erba o sul  marmo gelido del corridoio.
S'accende nel buio dal palazzo di fronte una luce, compagna d'un sonno turbato, per subito spegnersi.
Sul grigio pavimento qualche briciola testimonia la cena.
La schiena dell'uomo - che sa il peso assurdo del lavoro che schianta - è curva, gravata da nera stanchezza e forse da opachi pensieri.
Sta dritto il ragazzo, la schiena - che sa tanti graffi di frusta - poggiata al pesante schienale.
Rumore  di macchine giunge da fuori - un breve rumore che già s'è perduto.
Tremola appena la luce, ma subito torna al suo freddo chiarore.
Mille domande s'affollano - forse - alla mente dell'uomo, in cerca di labbra che rompano il triste silenzio. Ma l'uomo non parla, lo sguardo nel buio.
Il ragazzo non ha più domande - ne ha fatte già troppe - ma un solo progetto, e guarda in silenzio il futuro.
Non s'alza un rumore dall'orto sospeso nel buio. Sta muta la stanza in attesa.
Mentre le labbra dell'uomo si muovono piano, magari per dire qualcosa, si alza il ragazzo, gli volta le spalle, ed  esce nel buio, chiudendo con cura la porta.

Da qualche anno diciamo che è possibile, chiamando tutto questo - o, meglio, ciò che da tutto questo nasce e che tutto questo rende possibile - "pedagogia della resistenza". Altri lo fanno, da poco o da molto tempo, non nominando ma agendo. Forse era tempo che le cose e i nomi si incontrassero e si abbracciassero. Così nasce questo laboratorio, nel quale vi/ci chiederemo di raccontare come si resiste e soprattutto come si educa a resistere. Emergeranno forse storie esemplari, da angolature diverse, tutte alla ricerca di una riproducibilità, tutte offerte e scandagliate perché qualcuno provi, modifichi, cambi, riproduca e prenda spunto. Soprattutto oggi, quando le forze della barbarie sono così forti e così allegramente schernenti le ceneri delle storie di emancipazione. Perché si interrompa il loro scherzo. Perché non abbiamo più voglia che si scherzi su un sogno di futuro. E perché non è uno scherzo sapere continuare. torna su


Per ritrovarci ... Perdiamoci
Karim Metref, Irene Zagrebelsky

Benessere, ordine, omogeneità, stabilità, controllo… Quanto questi concetti, diffusi nella società, condizionano la nostra vita? Questi imperativi rispondono a dei nostri bisogni reali o sono delle gabbie in cui ci rinchiudiamo? Quando diventano strumenti di controllo per giustificare il sistema vigente nel mondo e per impedire il cambiamento e la libertà di pensiero? La natura può essere distrutta per assicurare il superfluo diventato ormai indispensabile in nome della Comodità, popoli interi possono essere aggrediti e umiliati per ristabilire la Sicurezza, le libertà possono essere limitate per salvaguardare l'Ordine, il valore di un essere umano può essere misurato in termini di Produttività…Viste le concessioni fatte in nome di questi imperativi, conviene porsi alcune domande: dov'è il benessere? la sicurezza di chi? quale ordine? la comodità a quale costo?
Quando le sicurezze diventano limiti e l'ordine porta ad un'incapacità di innovare, è importante riflettere e osare di rimettere in discussione queste certezze: fare un'immersione nel disordine e nell'insicurezza, accettando il rischio di perdersi, può essere un modo di uscire dalla trappola? È quello su cui durante il laboratorio si cercherà di riflettere proponendo un lavoro di de-sacralizzazione di alcuni concetti generali (es. sicurezza, benessere, legalità, ecc.) e di alcune sicurezze individuali che i partecipanti decideranno di esplorare.

Ognuno di noi ha una serie di certezze, di sicurezze: valori, idee, appartenenze, abitudini, opinioni, sensibilità e predisposizioni che condizionano fortemente il nostro modo di comportarci e di relazionarci con il mondo… Rinunciare alle nostre sicurezze, destabilizzarle, rimetterle in causa… non ci pensiamo nemmeno. La sola idea ci fa venire la pelle d'oca.
Eppure quante volte ci ritroviamo come bloccati? Quante volte un problema ci sembra irrisolvibile, troppo ampio per la nostra mente, per i nostri parametri abituali di interpretazione della realtà che ci impediscono di esplorare tutte le vie possibili per capire e reagire? E se le cause e le soluzioni possibili si trovassero proprio in quei territori che non ci permettiamo di esplorare? Non lo sappiamo, appunto, perché non abbiamo mai verificato.
Allora perché non tentare una piccola "avventura" nei territori proibiti? Se, per lo spazio di quattro giorni, ci apriamo una breccia nei muri dei divieti, che costruiamo noi stessi o permettiamo che siano costruiti dall'esterno, cosa rischia di succedere? Sicuramente niente di grave, nel contesto "protetto" e ben limitato del laboratorio. Ma potrebbe essere un'opportunità per intravedere nuove possibilità, nuove capacità e sensibilità, in un viaggio in quella parte nascosta di noi stessi che può "rendere discutibili" le nostre certezze, facendoci percorrere nuove strade.

Valori, bisogni e paure
Ogni individuo, appartenendo a determinati contesti socioculturali, famigliari e generazionali, fa riferimento a una serie di valori. Alcuni di questi valori sono importanti ma non fondamentali, altri invece sono vissuti come fondamentali e non discutibili. Sono questi valori essenziali che condizionano il modo in cui ci poniamo e ci comportiamo in società. Le nostre certezze sono spesso delle "costruzioni" che rispondono a nostri bisogni fondamentali (di sicurezza, di riconoscimento, di amore…). Strettamente legate ai nostri bisogni troviamo le nostre paure.
La paura è un sentimento naturale e completamente legittimo. Essa non va affrontata con giudizi di valori o con argomenti razionali. Le paure richiedono comprensione prima di tutto. Solo dopo questo passaggio fondamentale, si può cominciare ad indagare sulle origini profonde delle nostre paure, "permettendoci" di spostare e ri-tracciare continuamente i nostri limiti, perché non si trasformino in muri che impediscono di guardare oltre ciò che già conosciamo.
Il laboratorio vuole essere un momento di confronto, esplorazione e messa in discussione di valori ed idee per scoprire i stretti legami con i nostri bisogni reali e le nostre paure. torna su


Oltre l'immagine. Per una cittadinanza reclamata
Patrizia Canova, Alessio Surian

Contenuti
L'educazione comincia dalle risposte o dalle domande? Il laboratorio prende le mosse da questa seconda ipotesi, come base per la formazione di pensiero critico e capacità di scelta nei processi di apprendimento e di cittadinanza attiva. Pensare il futuro è anche mettere a fuoco le nostre capacità collettive di trasformazione, valorizzando sia la pluralità dei linguaggi di apprendimento e azione presenti in un gruppo, sia le aspirazioni di partecipazione a partire dai sogni e dalle utopie di ciascuno.
Da un lato il laboratorio intende quindi proporre strumenti di lavoro partecipativi a partire dalla decostruzione (dei linguaggi dominanti) e costruzione collettiva (di lettura del territorio) di significati che ci permettano di appropriarci degli alfabeti dell'immagine, dei suoni, di narrazioni attente agli aspetti nonverbali e relazionali, capaci di rileggere scuola, piazza, città come spazi di comunità. Parole chiave: mappe (trame/reti/labirinti/ragnatele); domande (scelta/responsabilità/
comunità/città/cittadinanza/ partecipazione/democrazia diretta);  pluralità di linguaggi/opportunità di apprendimento.

Metodologia
Porteremo con noi immagini, film e video, musiche e soprattutto percorsi educativi resistenti (quali utopie ci aiutano a leggere e trasformare le nostre città e i nostri ambiti educativi? quale comunicazione è possibile di fronte alla mercificazione dell'educazione e delle relazioni? quali nuclei di lavoro valorizzano un ricorso collaborativo alle intelligenze multiple?).  Chiediamo a chi vuol partecipare di contattarci in anticipo segnalando fin d'ora la propria disponibilità a contribuire al laboratorio con: un brano narrativo e/o immagini sulla città che sognano ed uno sulla città che temono; un'idea o un'esperienza su come facilitare forme di partecipazione (patriziacanova@interfree.it, asurian@unimondo.org). torna su



Viaggiare attraverso territori sconosciuti rischiando l'opportunità della contaminazione
Sigrid Loos, Umberto Cinalli

Mettersi in viaggio implica una disposizione d'animo aperta al nuovo, all'imprevisto.
Viaggiare significa oltrepassare i confini del conosciuto per "giocare" con i propri limiti, acquisendo nuove conoscenze e nuove abilità, abbandonando il bisogno/dipendenza di sicurezza. Il "viaggiatore" conosce l'importanza del perdersi come presupposto per una maggiore conoscenza di sé. Il viaggio, infatti, è un esperienza che si vive fisicamente sulla strada ma anche all'interno del proprio animo, con valenze educative che possono renderci più consapevoli delle nostre possibilità e maggiormente capaci di affrontare l'incognita del futuro, inteso anch'esso come itinerario verso orizzonti non-noti.

Immaginando luoghi, culture, persone, si ricerca non la meta, ma la modalità dell'andare, il senso del cammino come idea del procedere e del crescere. Nel mentre ci si può imbattere in altri viaggiatori, incontri occasionali e compagni di viaggio, specchi del nostro stesso desiderio. Nessun viaggio è mai completamente terminato. Si snoda, fra paura e curiosità, come elementi contrari e complementari, come partire e tornare.

Nel percorso-laboratorio giocheremo con l'emozione, la curiosità, la paura, il desiderio, l'attesa, la scoperta, il timore. Nel viaggio attraverso le vie e le piazze dell'Antica Città rischieremo l'incontro con l'altro cercando quello che, a volte è invisibile agli occhi.

METODOLOGIA. Il Laboratorio si svolgerà tra momenti di esplorazione del territorio e attività di analisi di gruppo e di introspezione personale intercalati con attività ludiche, letture, esercizi di rilassamento, visite guidate. La percezione del viaggio avverrà attraverso tutti i sensi e attraverso tutto il corpo, a stretto contatto con i compagni, la cui scoperta costituirà un viaggio nel viaggio. Mente libera e corpo "disponibile" sono i requisiti richiesti ai viaggiatori.
Visiteremo gli spazi della Città Invisibile, valutando il contesto e le valenze educative del viaggio come metodo per educare al futuro, per costruire insieme percorsi di condivisione e di pace. torna su


Tra Davide e Golia. Linguaggi del corpo nel teatro e nella danza
Nadia Savoldelli, Marina Pecorelli

…Uno spazio. Ostacoli, strade, possibilità di fuga e rifugio. Figure defilate o evidenti si cercano
e si evitano. Sdraiarsi e stare fermi. Camminare, c'è chi  corre… Si rallenta e si ode l' affanno.
E poi l'incontro: ora sì lo affronto! Sono orribile. Dai, respira, senti il cuore come batte…
Quante convenzioni -sociali - etiche- comportamentali- ingabbiano ed inquinano la nostra mente, ci costringono a pensare anche quando non serve deformando così i nostri comportamenti, allontanandoci sempre più dai nostri sensi, complicandoci ulteriormente ed inutilmente l'esistenza.
Le parole diventano automatiche e guidano la nostra vita e il nostro agire più di quanto si sia  consapevoli.
Allora proviamo a "bandire" le parole cariche di significati appresi e lasciamo il grido, il silenzio, il pianto, il riso, le voci e i significati del corpo. Se nelle strutture intellettuali mettiamo, oltre a codici e convenzioni, condizionamenti,stereotipi, pregiudizi: come riconoscerli? Come acquisire consapevolezze per potere essere padroni di noi stessi e delle nostre risposte istintive? Come governare il vissuto che ci porta ad identificare "l'altro" come nemico e pericolo? Come vivere un problema, stare nel conflitto vivendolo come necessaria fonte di vita? Come percepiamo spazi e distanze con guerre lontane?

Nel laboratorio affrontiamo questa perdita di consapevolezza della propria energia nella relazione, e proponiamo attività dove si utilizza con gioia anche la forza, la lotta: attraverso situazioni di gioco si entra nel rito del duello, nella drammatizzazione del confronto e dello scontro, nella sperimentazione di alcune regole della lotta.
Occorre esplorare ciò che è "aggressivo - violento - negativo" per identificare  il confine con il rispetto dell'essere umano, con l'energia e la forza che si sprigionano nella relazione.
Occorre conoscere le regole che ci guidano nel quotidiano, che ci portano a vivere in situazioni complesse impedendoci di coglierne la semplicità.
Il teatro può essere contenitore che rivela queste regole di comportamento altrimenti invisibili ed automatiche. Alcune tecniche del Teatro Degli Oppressi si pongono come fertili aree di lavoro per indagare possibili modi di affrontare un problema.
La danza scopre gesti e significati, definisce e dilata lo spazio e il territorio, crea forme ed energie giocando contrasti e  individualità.
Le regole d'oro dell'improvvisazione, come nel brainstorming, bandiscono censura e auto-censura, vietano la critica, accolgono le idee e le trasformano poiché diventano di tutti, in un equilibrio tra creazione di gruppo e creatività individuale, senza che l'uno soffochi l'altro.Dunque niente paura, grandi idee poiché paure, giudizi, idee preconcette di originalità ed espressione, possono interferire con il processo creativo.
Narrazioni di miti, fiabe e testimonianze dell'altrove saranno stimolo e, al contempo, sfondo espressivo delle azioni sperimentate e vissute.
Quindi il laboratorio diventa una palestra nella quale osservarsi, leggersi, conoscersi, ascoltarsi e farsi ascoltare: con il corpo, la danza, la voce.
Si ricercherà un modo teatrale per notare il passaggio dall'energia di conflitto - situazione di pericolo, stato di litigiosità, lavoro pesante e stressante - all'energia di solidarietà, passando attraverso la ricerca di dimensioni e strategie di forza che si possono adottare mostrando il proprio grande Golia e il piccolo Davide. torna su


Suoni e silenzi a percussione. Ascoltare esprimersi e comunicare attraverso l'utilizzo degli strumenti a percussione
Luciano Bosi

Il laboratorio vuole fornire ai partecipanti la possibilità di entrare in maniera semplice ed attiva nel mondo delle percussioni: incomparabile universo di suoni, silenzi e colori generati da uomini e donne di ogni epoca e luogo, allo scopo di esprimersi e comunicare attraverso emozioni che da sempre possiamo ascoltare dentro e fuori di noi.
Il vasto ed eterogeneo strumentario a percussione rappresenta il modo più diretto e stimolante per esprimere la personale capacità di produrre "suoni e silenzi organizzati" (meglio conosciuti in occidente come musica) e di confrontarsi ed integrarsi direttamente con il gruppo mediante la pratica della musica d'insieme anche senza possedere esperienze in ambito percussivo o musicale in genere.
L'uso delle percussioni permetterà inoltre di cogliere l'archetipo legame che tale pratica strumentale ha con il corpo e con il movimento, tramite la possibilità di comunicare attraverso il ritmo e il ritmo non è solo musica...
Il percorso ha come obiettivo il coinvolgimento dei partecipanti in una serie di giochi, azioni ed eventi sonori finalizzati a star bene con se stessi e con gli altri nel proporsi attraverso i suoni e i silenzi organizzati, cioè essere disponibili all'agire nel campo delle esperienze e delle relazioni.
È possibile conseguire tale obiettivo partendo dalla considerazione che le emozioni sono uno stato d'animo individuale che ognuno di noi elabora ed esprime in modo più o meno esplicito e che esse partecipano a volte in modo determinante alla definizione dell'ambiente che ci circonda; possiamo perciò dedurre che ogni individuo contribuisca a modificare positivamente l'ambiente, liberandosi da quelle emozioni che non portano alcun beneficio al proprio stato esistenziale e a quello degli altri.

Programma/metodologia

- Scoperta ed utilizzo dei nostri ritmi biologici naturali (spontanei), e di quelli artificiali e/o musicali (indotti/organizzati)
- percezione e scoperta del corpo che ascolta;
- ricerca ed utilizzo del silenzio;
- esplorazione ed utilizzo dello strumentario a percussione;
- uso delle dita, delle mani e dei battenti nell'azione percussiva;
- giochi ed esercizi di interdipendenza e sincronia ritmica;
- giochi e ritmi collettivi;
- pratica della musica d'insieme: "l'orchestra a percussione"; torna su


La consapevolezza e la speranza
Pasquale D'Andretta

Mi chiedono all'improvviso: "Qual è la qualità distintiva dell'educatore del Terzo Millennio?". Io rispondo di getto: "La consapevolezza!". "No…" - mi correggo dopo un attimo di esitazione: "Forse è la speranza…".  Ma resto nel dubbio. E poi mi rendo conto che quella domanda continua a risuonare dentro di me. La cerchiamo insieme qualche risposta?

Laboratorio esperienziale, con attività di carattere  autobiografico. Ricerca di gruppo sul significato e sull'incidenza nella nostra esperienza di educatori delle due parole-chiave indicate nel titolo. Narrazione, scrittura, espressione corporea, raccolta di segni e di oggetti evocativi. torna su


"Festina lente" -  Affrettati lentamente muoversi nel tempo e r-esistere nell'incertezza
Gianni D'Elia e Salvatore Catalano

La proposta di un laboratorio sul tempo, sull'educazione, sulla r-esistenza in tempi incerti nasce dalla consapevolezza della difficoltà dell'uomo e della donna contemporanei di muoversi nel tempo e di orientarsi di fronte ai propri compiti educativi. Il ".festina lente" riassume le polarità tra cui ci muoviamo: velocità e lentezza; memoria e progetto; soggettività e appartenenze… Forse perché abbiamo perso la capacità di raccontare? Questa è l'ipotesi di W.Benjamin, in Angesul Novus. È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze.
Il laboratorio userà come chiave di accesso nei temi su indicati il metodo autobiografico come strumento che permette di contaminare i tempi: passato, presente e futuro si rincorrono, si con-fondono. Lo svolgersi della vita interiore dà realtà al tempo: attraverso l'attenzione, che è tempo presente, la memoria che è passato, l'attesa che è futuro, in una continuità della coscienza che contiene il passato e si protende verso il futuro. L'autobiografia è sede del ritorno a ciò che si è stati, un ritorno che, al tempo stesso, alimenta il desiderio di nuove esplorazioni.
Il sé narratore, nel qui ed ora, entra in relazione con il sé protagonista di una storia già vissuta e, non si limita a raccontare ma giustifica, dà senso (dimensione soggettiva). Nel narrare ci si rappresenta agli altri, alla ricerca collettiva di nuovi significati (dimensione sociale). Il sé protagonista è sempre orientato al futuro.
In questa prospettiva temporale, i nostri passi di "educatori" si fanno incerti, incespicano. Come apprendere a camminare nel terreno scosceso della formazione recuperando memoria e progetto, soggettività e appartenenze?
Grazie alla narrazione, al ritorno consapevole su sè stessi si ritrovano connessioni e rimandi all'interno della propria storia di vita, si ha la possibilità di attribuire un significato al presente in una dimensione progettuale.
Affrettarsi lentamente, ricercare tra le proprie esperienze di educazione: emozioni, significati, sentimenti, orientamenti.
L'Approdo di questo viaggio all'interno del laboratorio, di noi stessi, del gruppo, non è precostituito. Non abbiamo mete da raggiungere, traguardi predefiniti, verità da scoprire... quello che costruiremo, in termini di conoscenze, esperienze, vissuti ... lo costruiremo insieme attraverso l'interrogazione reciproca e attraverso l'interrogazione soggettiva. Si tratta, in qualche modo, di metterci in atteggiamento critico di fronte alla vita, di decostruire abiti mentali per tentare di immaginarne di nuovi o di altri, attraverso il confronto e la riflessione.
Nella vita quotidiana contemporanea (time) ciò che manca, generalmente, è il tempo da dedicare alla conversazione, all'espressione di sè, ciò che comporta una forte riduzione - fino alla totale mancanza - della possibilità di ascolto e di riconoscimento; è come se mancassero spesso gli strumenti e le "parole per dirlo".

Il laboratorio, attraverso un lavoro di introspezione e retrospezione, proporrà una metodologia attiva che alternerà esercitazioni autobiografiche individuali e di gruppo, con l'utilizzo di diversi strumenti: scrittura, immagini, suoni, letture… Le attività proposte costituiranno un intreccio connettivo di significati, vissuti, esperienze; daranno l'opportunità di narrare per sé, ma costituiranno anche un modo di essere per gli altri. 
La funzione sarà quella di rievocare per ridare voce ai ricordi ... emozionandosi, rimettere insieme ciò che è disperso, dare forma nuova a quanto ci è accaduto, in una tensione tra soggettività e relazionalità, tra processi di significazione e processi d'interazione all'interno del gruppo, in una prospettiva di apertura di nuove possibilità.

Nello specifico il laboratorio si strutturerà attraverso i seguenti momenti/fasi/percorso:

  • "tempo al tempo": si esplorerà la complessa dimensione del tempo. Passato, presente, futuro...tempo
    cronologico, tempo vissuto, tempo immutabile.
  • "tempo di incertezze": si esplorano motivi e cause per cui si dice che oggi viviamo tempi e situazioni incerte;
  • "tempo dell'educare": è il momento per esplorare l'educazione ricevuta e quella esercitata. Le difficoltà, oggi,
    del sentirsi educatori a diversi livelli ( genitori, insegnanti, educatori professionali...)
  • tempo per sé, tempo per gli altri: come coniugare il tempo per l'introspezione con il tempo dell'agire, del
    movimento con e verso gli altri...
  • tempo di ricordi, tempo di possibilità: come coniugare l'esigenza di non trasformarsi in smemorati con
    l'esigenza di preparare e ricercare nuove possibilità... torna su

 


Per costruire una società sostenibile. Riti e miti per un futuro capace di educare
Davide Bazzini, Paolo Ragusa

Ci hanno rubato il futuro, abbandonandoci in questo presente carico di oggetti e povero di significati: vorremmo recuperare la refurtiva. Recuperare la refurtiva significa provare a fare piccoli passi , quotidiani e pragmatici , per costruire una "società sostenibile".
Una società sostenibile è innanzi tutto un contesto in cui i nostri piccoli passi diventano strategia di cambiamento, azione di trasformazione sociale consapevole.
Per recuperare la refurtiva , per riappropriarci del futuro, proponiamo un laboratorio in cui guardare indietro, al modo in cui pensiamo e costruiamo la nostra conoscenza, ad alcuni concetti fondamentali che usiamo come miti e che riteniamo indissolubili e indiscutibili: il mito che l'economia sia separata dalla società, il mito che tutto abbia un costo e sia quantificabile in denaro, il mito che tutto si possa spiegare con il meccanismo di causa - effetto, il mito dell'infallibilità della conoscenza scientifica, il mito dell'oggettività della conoscenza numerica…
Miti e riti che conducono all'apatia, all'abbandono, all'oblio, alla sensazione che " è tutto così e non cambierà mai…".
Proveremo  a guardare indietro, a scavare attorno alle fondamenta dei miti che giustificano il presente , lo vogliono ineluttabile ed immodificabile.

Pensiamo ad un laboratorio  "archeologico", polveroso e assolato, alla ricerca di "oggetti sociali" da identificare, da classificare, da ricostruire per interpretare il presente, per costruire un futuro in cui altri mondi siano possibili.
Proveremo a esplorare strati e stratificazioni delle pratiche sociali ed educative, connettendoli con i saperi, i riti e i miti del presente.
Proveremo a dotarci di strumenti da utilizzare localmente per un cambiamento sociale responsabile, per essere educatori , insegnanti operatori sociali capaci di futuro.
Proveremo a costruire Zion la città ribelle che resiste a Matrix, il sistema di macchine che incatena gli uomini ad una realtà fittizia…

"Vorremmo far nostro lo sguardo dell'archeologo e del paleontologo, così sul passato come su questo spaccato stratigrafico che è il nostro presente, disseminato di produzioni umane frammentarie e mal classificabili: industrie metalliche, megaliti, scheletri di ecatombi, feticci. Nel suo scavo l'archeologo rinviene utensili di cui ignora la destinazione, cocci di ceramica che non combaciano, giacimenti di altre ere da quelle che si aspettava di trovare lì: suo compito è descrivere pezzo per pezzo anche e soprattutto ciò che non riesce a finalizzare in una storia o in un uso, a ricostruire in una continuità o in un tutto.[...] Analogamente noi vorremmo che il nostro compito fosse d'indicare e descrivere più che di spiegare: perché se abbiamo troppa fretta di dare una spiegazione il nostro punto di partenza tornerebbe a essere quello che non è nemmeno un punto di arrivo, cioè noi stessi: teleomonia a un tempo vanagloriosa e delusiva. [...] Al contrario: il rifiuto a usare noi oggi qui come spiegazione delle cose obbligherà alla fine le cose a spiegare noi oggi qui." (Italo Calvino, Lo sguardo dell'archeologo, in Una pietra sopra, Einaudi, Torino 1980). torna su



Mappe del riabitare. Lo spazio disciplinato
Roberto Morselli e Roberto Papetti

L'ultimo quarto del nostro secolo passerà alla storia come la Grande guerra di indipendenza dallo spazio. Una guerra durante la quale i centri decisionali, insieme alle motivazioni stesse che determinano le decisioni, gli uni e le altre ormai liberi da legami territoriali, hanno preso a distaccarsi, in forma continua e inesorabile, dai vincoli imposti dai processi di localizzazione.

Come dice Timothy W. Luke, "La spazialità delle società tradizionali è organizzata attorno alle più immediate capacità del normale corpo umano. (…) Nella tradizione le attività venivano viste facendo ricorso a metafore tratte dalla vita organica: i conflitti si svolgevano faccia a faccia; le battaglie si combattevano a viso aperto. La giustizia voleva l'occhio per occhio, dente per dente. La discussione era accorata. La solidarietà si faceva spalla a spalla. Il senso della collettività si manifestava mettendosi a braccetto, l'amicizia mano nella mano. E le innovazioni venivano introdotte un passo alla volta".
Questa situazione è mutata radicalmente quando sono stati introdotti e sviluppati mezzi grazie ai quali i conflitti, la solidarietà, il dibattito o l'amministrazione della giustizia sono andati ben al di là di quanto non potessero fare l'occhio e il braccio. Lo spazio è stato lavorato, accentrato, organizzato, normalizzato e, soprattutto, emancipato dai normali limiti del corpo umano. Sono state quindi le capacità della tecnica, la rapidità dei suoi sviluppi e il costo del suo utilizzo che, da qual momento, hanno "organizzato lo spazio".

In poche parole: piuttosto che rendere omogenea la condizione umana, l'annullamento tecnologico delle distanze spazio-temporali tende a polarizzarla. Emancipa alcuni dai vincoli territoriali e fa sì che certi fattori generino comunità extraterritoriali, mentre priva il territorio, in cui altri continuano a essere relegati, del suo significato e della sua capacità di attribuire un'identità.

Nel processo di modernizzazione, momento decisivo fu quindi la lunga guerra per riorganizzare lo spazio. Nella principale battaglia di questa guerra era in gioco il diritto di controllare gli uffici cartografici. L'obiettivo, in verità sfuggente, della moderna guerra per lo spazio era quello di subordinare lo spazio sociale a una, e una sola, mappa ufficialmente approvata e patrocinata dallo stato; uno sforzo accompagnato, e rafforzato, dal rifiuto di accettare qualsiasi altra mappa o interpretazione dello spazio in concorrenza con quella ufficiale, mentre venivano smantellate e interdette tutte le istituzioni e le iniziative di pratiche cartografiche diverse da quelle istituite, finanziate e autorizzate dallo stato. Da questa guerra sarebbe dovuto emergere uno spazio strutturato dal potere dello stato e dai suoi agenti secondo parametri di perfetta leggibilità; mentre doveva restare del tutto immune da significati imposti dai suoi utenti o vittime  - cioè impermeabile a qualsiasi interpretazione da parte "della base", che potesse occupare frammenti di spazio con significati ignoti e illeggibili per i poteri in carica, sì da renderli invulnerabili al controllo dall'alto.

Il primo compito strategico della moderna guerra per lo spazio fu quindi quello di disegnare lo spazio su mappe che l'amministrazione statale potesse leggere e interpretare facilmente, aggredendo invece l'ottica delle pratiche locali, privando allo stesso tempo i locali dei mezzi di orientamento di cui avevano piena padronanza, e perciò confondendoli.
Il processo di modernizzazione aveva raggiunto gli obiettivi del primo stadio; si apriva ora la strada per lo stadio successivo e più ambizioso. A quel punto l'intento non era solo quello di disegnare mappe eleganti, uniformi e che uniformassero il territorio dello stato, ma quello di dare una nuova forma fisica allo stato, sulla base degli eleganti modelli sino ad allora raggiunti solo dalle carte disegnate e immagazzinate negli uffici cartografici.
Era lo spazio stesso che andava rimodellato, o modellato dal niente, per somigliare alla mappa e obbedire alle decisioni dei cartografi.
Dal punto di vista dell'amministrazione dello spazio, modernizzazione vuol dire monopolio dei diritti cartografici. Il monopolio si ottiene più facilmente se la mappa precede il territorio che essa descrive: se la città è, sin dalla creazione e per tutta la sua storia, semplicemente una proiezione della mappa sullo spazio.
(Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Laterza, Bari, 1999).

Che cosa si intende per bioregione?
Bio vuol dire vita, regione sta per luogo; bioregione è quel luogo particolare dove organismi viventi trovano e provano nell'unità di biologico e non biologico, possibilità di vita.

Bioregione è:

  • secondo il punto di vista geografico, un territorio con le sue specifiche caratteristiche (cioè una vallata, una catena montuosa, un bacino fluviale), un'area soggetta ad un clima particolare;
  • secondo il punto di vista ecologico, l'ambiente con le varie componenti animali, vegetali e minerali;
  • secondo la componente etnica di un'area geografica, il luogo in cui vivono le persone con i loro modi di vita, il lavoro, i costumi e le abitudini, i riti, i modi di costruire le case, le esperienze culturali e le espressioni artistiche;
  • una lingua espressa e tramandata dalle generazioni, arricchita e contaminata da apporti esterni, comunque legata ad uno specifico locale.

Spesso la bioregione è una realtà che nasce da un crinale montuoso, si spinge sulle rive di un fiume per giungere al mare. In questo tragitto le realtà si diversificano, cambiano poco o molto alcune caratteristiche ma rimangono ben definite le componenti ecologiche, geografiche, etniche e linguistiche che le danno quella particolare identità.
Esistono tantissime bioregione sul pianeta terra, una vicino all'altra, come in un grande puzzle. Spesso queste regioni hanno confini che non coincidono con quelli degli stati.
Ciò che caratterizza una bioregione è infatti il particolare legame che si stabilisce tra viventi umani e ambiente di vita e che fanno di quel posto un luogo unico e speciale.
Essendo luogo di appartenenza e di identità la bioregione ispira solidarietà, semplicità, economie di sussistenza perfettamente integrate con i cicli stagionali, cultura locale basata sul legame profondo con la realtà grande e fondamentale del pianeta Terra.
L'idea bioregionalista permette di affrontare i problemi ambientali e sociali da un punto di vista particolare. Essa considera il posto in cui si vive, non più un'entità materiale da sfruttare, ma piuttosto come un insieme di esseri ed elementi, piante, animali, suolo, clima in mutua dipendenza. È una visione che mette al centro l'ecologia e le relazioni, che considera l'uomo parte e non centro della vita del pianeta. Forse questa visione può aiutarci a ritrovare "la terra sotto i piedi", il senso di responsabilità e la forza di affrontare i gravi problemi che incombono sul pianeta. Ci troviamo infatti in un momento critico della storia della Terra, un periodo in cui l'umanità deve scegliere il suo futuro. In un mondo che diventa sempre più interdipendente e vulnerabile, il futuro riserva insieme grandi pericoli e grandi promesse. Per andare avanti dobbiamo riconoscere che all'interno di una straordinaria diversità di culture e di forme di vita siamo un unico famiglia umana e un'unica comunità terrestre con un destino comune.
(Roberto Papetti, Bioregione Romagna. Mappe locali di dune, valli, pinete ravennati, Editoriale scienza, Trieste, 2003)

Inno alla terra
A Gea, madre di tutta la vita
e la più antica fra gli Dei, io canto.
Tu crei, nutri e guidi
tutte le creature della terra
ciò che si muove
sul tuo fermo e luminoso suolo,
ciò che vola nei tuoi cieli,
ciò che nuota nei tuoi mari,
tutto è nato da te.
Signora,
da te vengono tutti i nostri raccolti
i nostri figli, la notte e il giorno.
Tuo è il potere di darci la vita
tuo è il potere di portarla via.
A te che contieni ogni cosa.
A Gea Madre di tutto
Io canto.   (Omero)
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Tessere la diversità con i colori dei popoli dell'arcobaleno
Pedro Sánchez e Silvio Boselli

"…E fu così che la guacamaya ebbe i sui colori e ancora oggi è orgogliosa di mostrarli
ogni volta che gli uomini e le donne dimenticano che i colori e i pensieri sono molti
e che il mondo è felice solo quando tutti i colori e i tutti pensieri trovano un loro posto."
(Da La historia de los colores del subcomandante insurgente Marcos)

Il laboratorio si ispira a un popolo originario delle Americhe - i Kuna - che ha mantenuto un forte senso di identità culturale, un immenso rispetto per la natura e una grande forza creativa ed espressiva che si manifesta nella produzione artistica più rappresentativa della cultura kuna, le MOLAS.
Queste opere sono create dalle donne e ottenute mediante una tecnica basata sulla sovrapposizione di tessuti di vari colori. Le MOLAS introducono a una particolare visione del mondo che colpisce per la sua ricchezza e complessità e rappresentano un importante elemento di identità/diversità e di coesione culturale per la cultura Kuna.

Partendo da alcune simbologie e narrazioni sull'origine dell'universo e della flora e della fauna kuna, vorremmo stimolare il nostro immaginario condividendo con i partecipanti storie giochi e momenti di riflessione e ritagliandoci uno spazio di espressione creativa.

Il laboratorio vuole offrire la possibilità di avvicinarsi a tecniche originarie e alla forza creativa ed espressiva delle molas.  Sulla falsariga delle tradizioni artistiche centroamericane, attraverso la metafora dell'animale e l'uso di tessuti, carte colorate e materiali vari, ognuno avrò l'opportunità di realizzare un'opera personale che farà da base per la costruzione di un mural.

Si sperimenterà così una sorta di interazione tra individuale e collettivo, alla maniera dei Kuna, muovendoci per gradi verso l'esperienza dell'incontro con ciò che è diverso da noi. torna su


Bradford Italia. Faith in our future
Lucrezia Pedrali, Brunetto Salvarani

Nulla di nuovo rispetto a quanto già annunciato nel corso dell'anno sulla rivista.
Siamo ancora una volta a riflettere e ad operare sulla "questione" delle religioni a partire da una serie di considerazioni che accompagnano la nostra scelta:

  • Qualsiasi tentativo di comprendere la molteplicità nella quale siamo immersi passa anche attraverso la comprensione del fatto religioso;
  • Occuparsi di educazione e formazione significa prendere atto che la comprensione dei fenomeni religiosi richiede la presenza nella scuola di un percorso formalizzato di conoscenza delle relig.;
  • Tutte le discipline di insegnamento, ma più in generale tutta la cultura che ci circonda, sono in contatto per analogie o per contrapposizioni, per derivazione o per separazione, con la dimensione religiosa.
  • E' possibile sperimentare "l'ora delle religioni" attraverso progetti che pur tenendo conto della specificità della scuola italiana (cioè della presenza dell'IRC), mettano in gioco la valenza trasversale di questa educazione che può trovare posto, sperimentalmente, in ambiti e discipline diversi o nell'attività alternativa.
  • I percorsi didattici possono essere costruiti a partire da ipotesi di lavoro specifiche e/o interdisciplinari.


Ipotesi di lavoro
Il laboratorio si propone, ambiziosamente, di integrare la dimensione individuale e quella professionale dei partecipanti . Si giocherà quindi su due piani: uno più di riflessione teorica e l'altro maggiormente indirizzato alla esplorazione circa il proprio modo di sentire il fatto religioso.

  • Riconoscimento del proprio rapporto individuale con il fatto religioso;
  • Esplorazione del sacro attraverso i segni sul territorio;
  • Arte e religioni.

A partire dal Syllabus di Bradford di cui abbiamo lungamente parlato sulla scorsa annata delle rivista, ci piacerebbe delineare un itinerario formativo sulle religioni che tenga conto della naturale evoluzione delle capacità di apprendimento:

  • narrazione di vissuti personali;
  • la famiglia e la religione;
  • gli incontri con l'istituzione (chiese e/o rappresentanti delle religioni);
  • la ritualità;
  • i segni del sacro sul territorio;
  • testi letterari, prodotti artistici;
  • rapporti con la storia, le altre discipline antropologiche, le scienze.

Obiettivi del laboratorio: (a) Sperimentare la possibilità, la bellezza e la necessità di un percorso di conoscenza del fatto religioso per sé e per tutti; (b) Valutare, selezionare, costruire materiali didattici funzionali al precedente obiettivo. torna su


Il futuro che saremo: educati o rivoltati?
Cristina Carniel & Manuel Cerutti

Solo domande quest'anno.
Quale futuro si prospetta?
Quale mondo sarà possibile?
Che cittadini saranno quelli che vedranno i prossimi decenni?
Ci saranno ancora cittadini, o torneremo ai sudditi?

Durante il laboratorio staremo a farci domande, darci risposte (come sempre temporanee),
raccontarci storie…

METODOLOGIA
Lavoreremo usando come al solito la sperimentazione di nuove attività e il raccontarci cosa abbiamo vissuto.
Il dialogo avrà uno spazio privilegiato, tenendo presente anche l'uso di altri linguaggi (soprattutto corporei) torna su


La ludoteca della mondialità
Renzo Laporta, Stefania, Marzio Marzot
 

Il mondo sorrida
I bambini giocano alla guerra.
È raro che giochino alla pace
perché gli adulti da sempre
fanno la guerra, tu fai "pum" e ridi;
il soldato spara e un altro uomo
non ride più. È la guerra.
C'è un altro gioco da inventare:
far sorridere il mondo,
non farlo piangere.
Pace vuol dire che non a tutti
piace lo stesso gioco,
che i tuoi giocattoli piacciono
anche agli altri bimbi che spesso
non ne hanno, perché ne hai troppi tu;
che i disegni degli altri bambini
non sono scarabocchi;
che la tua mamma non è solo tutta tua;
che tutti i bambini sono tuoi amici.
E pace è ancora non avere fame,
non avere freddo, non aver paura.

Bertolt Brecht, I Bambini giocano

Contenuti
Giocare giochi e costruire giocattoli per divertirsi con poco, riscoprendo la tradizione in un orizzonte interculturale, dove l'autocostruzione del giocattolo povero è mediazione per incontrare bambini e bambine di altre culture; per riconoscere la propria infanzia attraverso il conoscere immagini d'infanzie diverse dalla nostra, e tutt'insieme si cercano comuni diritti d'essere e crescere felici; per resistere e promuovere alternative al commercio dei rapporti.
Creazione di un mini libro che alla raccolta delle descrizioni e disegni dei manufatti creati, associ i diritti dell'infanzia.
Allestimento di una mostra sui giocattoli autocostruiti associati ad immagini di infanzie d'altre culture e mondi, con il richiamo ai diritti dell'infanzia. Una mostra tutta da esperire, capace di coinvolgere l'adulto a giocare, anch'egli creando giocattoli con le mani (sotto la responsabile e precisa guida dei bambini e  delle bambine che insegnano ad altri ciò che, a loro volta, hanno appreso nel laboratorio 14).
A fine laboratorio è previsto l'allestimento della "Ludoteca della Mondialità" nel giardino e sotto i portici, ricorrendo a sfondi integratori: grandi giocattoli che contengono e valorizzano i giocattoli autocostruiti dai bambini.

Metodologia
Laboratorio di manualità creativa con il legno, oggetti di riciclaggio e gli strumenti veri della Mondialità'.
Stimoli di sollecitazione al confronto interpersonale conseguenti la visione del video "A nous la rue"; le diapositive tratte da immagini di bambine e bambine di altre culture che giocano con i loro giocattoli; il testo base "I diritti dei bambini in parole semplici" Unicef Roma.
Scambio e colloquio con e tra i bambini e le bambine, per confrontare immagini d'infanzie diverse "al di qua e al di là dal mare", diritti negati e diritti riconosciuti.
Responsabilizzazione per l'autonomia operativa e progettuale nel costruire giocattoli, realizzare e gestire "La ludoteca della Mondialità". torna su

 
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