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STRATEGIE COMUNICATIVE

Ernesto Balducci Edgar Morin, Ripensare la politica - (3)

E. Balducci

di Patrizia Lotti
10 Ottobre 2003

In una cronaca giornalistica letta stamani, che si riferiva a questa notte, leggo che i soldati americani sulla linea di frontiera del Golfo nell'udire il rumore dei bombardamenti che si avvicinavano all'Iraq hanno gridato, entusiasti fra di loro: " E' terribile e splendido. Stiamo facendo la storia". Questo improvviso sussulto di coscienza storica dei marines mi ha sollecitato. Sono convinto, stanno facendo la storia. Sono convinto che quello che sta avvenendo in questi giorni, che avverrà nei giorni nel Golfo potrà essere assunto nel futuro, anche come datazione, come inizio di un’epoca nuova che succede all’Età Moderna. Per altri versi noi abbiamo ormai raggiunto, nella terminologia corrente, la individuazione di una età post-moderna. Ecco, sul piano culturale-politico la guerra del Golfo segna la fine dell’Età Moderna, dà inizio all’età post-moderna. In questo senso la coalizione multinazionale che sta operando in questi giorni, in un linguaggio farisaicamente pulito ‘una operazione di polizia internazionale', in linguaggio realistico 'una guerra’, sta portando avanti la liquidazione di un’epoca storica. Possiamo dire – utilizzando le suggestioni che mi sono venute prima dalla lettura dei libri di Morin, e poi da quello che ora ha detto – che, sì, è vero, noi siamo nell’età del ferro dell’età planetaria ma questa età planetaria si è costruita con la violenza e solo oggi essa si mostra incapace di realizzare l’ispirazione internazionale che l’ha guidata in questi cinquecento anni.
Schematizzando, potremmo distinguere la storia dell’umanità, nell’epoca propriamente storica, dopo l’origine della civiltà, in tre tappe. Una tappa è quella delle grandi isole etnologiche e culturali, separate tra loro, spesso ostili fra di loro, però dotate ciascuna di una sua logica di sviluppo. Pensiamo alla grande isola cinese, a quella indiana, a quella islamica, a quella occidentale – Atene, Roma, il mondo germanico -, alle grandi civiltà, che solo oggi riscopriamo, degli indios, alle stesse civiltà africane. Erano isole culturali tra loro separate. Quando è nata la rivoluzione scientifica, e, conseguentemente ad essa, la grande intrapresa della rivoluzione industriale, l’isola occidentale ha tentato l’egemonia planetaria. C’è quasi una coincidenza cronologica. La civiltà moderna è nata – così si legge anche nei testi scolastici – nel 1492, che è l’anno in cui abbiamo compiuto, nell’estremo Occidente, lo sterminio.  Lo sterminio degli indios è l’atto inaugurale della civiltà moderna che ha avuto come sua caratteristica interna la distruzione dell’altro o la sua assimilazione, il disconoscimento dell’altro come tale.
Questa è la nostra storia. Questa storia ha avuto un arco di cinquecento anni e adesso sta rivelando la propria consunzione nelle acque del Golfo, chissà, forse con un rogo apocalittico di petrolio che potrebbe anche allietare qualche fantasia malata che si nutre alle letture apocalittiche. Questo scenario è uno scenario probabile. Chissà, una di queste mattine potremo sentir dire che i pozzi del Kuwait sono tutti in incendio e che il mare rimarrà contaminato da questo incendio, come leggevo in uno scenario fatto da uno specialista, per secoli e secoli. E’ una possibilità già messa in atto nelle sue cause.
Questa è la fase nuova che nel mio auspicio dovrà essere quella autenticamente planetaria che non implica affatto l’egemonia di una cultura sulle altre ma la convivenza tra le culture e la loro mutua fecondazione, vorrei che perfino la loro compresenza all’interno dell’uomo responsabile del futuro dell’umanità, perché il futuro è uno solo per tutti noi ormai.
Ebbene, accettando – non posso non accettare – l’invito a focalizzare un discorso sul ripensamento della politica su ciò che sta avvenendo in queste ore del Medio Oriente, possiamo dire che la catastrofe del Medio Oriente, almeno per molti di noi che hanno creduto, come io ho creduto, anzi credo nelle grandi conquiste della nostra civiltà occidentale che sono apparse in certi momenti come conquiste per tutti gli uomini, sta facendo naufragare queste conquiste per tutti gli uomini, sta facendo naufragare queste conquiste nelle acque del Golfo. Io sono convinto che le Nazioni Unite sono una grande creazione nata dalla coscienza dei diritti umani, nata attraverso quel travaglio, che garantisce l’autenticità del parto, che è stata l’ultima guerra. Negli articoli della Carta delle Nazioni Unite, quando io li leggo, sento, per reminiscenze generiche ma sicure, approdare la sofferenza, la speranza dei condannati della Resistenza, di tutti coloro che hanno perso la vita sperando in un mondo diverso. In quella Carta c’è come la cristallizzazione di una epopea morale e perciò ci sono attaccato, è come una pagina della Bibbia, un evento messianico. Non  mi meraviglia che nel palazzo delle Nazioni Unite qualcuno abbia pensato di scrivere le parole di Isaia, in una adozione laica di una profezia messianica che del resto quando è messianica e non soltanto religiosa è sempre anche laica.
Così ci eravamo appena rallegrati (io sono poi, nella misura mia modestissima, un cantore ostinato di queste conquiste), del trionfo della Carta di Helsinki. Il trionfo della Carta di Helsinki, che ha avuto i suoi effetti politici massicci nella caduta dei muri – quello fisico di Berlino e di tanti altri muri – ha raggiunto la sua ultima epifania straordinaria a Parigi appena due mesi fa. La Carta di Parigi, firmata dai paesi che vanno dagli Urali all’Atlantico, compresi quelli di oltre Atlantico, ratifica un principio che io speravo finalmente fermo nella coscienza di tutti i popoli, almeno di quelli che hanno firmato la Carta delle Nazioni Unite nella quale è scritto proprio questo stesso principio che poi ha germogliato ed è fiorito nel clima di Helsinki dal 1975 in poi. Io pensavo che il principio che la guerra non è strumento per la soluzione dei conflitti fra i popoli valesse anche fuori dei confini delle nazioni del Nord ed ecco che invece in questi giorni sta rivelandosi il contrario: la forza come strumento di soluzione dei conflitti. Nel Golfo vediamo venire alla luce, con una chiarezza da laboratorio chimico, quello che è l’elemento perverso della storia moderna gestita dall’Europa – prendo il termine dalla sua assunzione culturale lata, anche gli Stati Uniti sono Europa -, cioè l’uso ideologico del diritto.
Certo, il diritto si fonda su valori oggettivi della persona umana, però di fatto ci appelliamo al diritto sempre e soltanto quando esso è funzionale ad interessi di altra natura. Morin ha ricordato le violazioni che si sono realizzate nel Medio Oriente, non le ripeto. Voi sapete che nessuna nazione si è mossa. Israele non ha voluto nemmeno ricevere la delegazione dell’ONU. Almeno Saddam ha ricevuto Perez de Cuellar. E’ chiaro che il fervore straordinario con cui le nostre vestali, stracciandosi le vesti hanno voluto difendere il diritto internazionale con la forza è un fervore ideologico, funzionale alla logica del mercato è questo connubio che non può non scandalizzarci e noi non possiamo non pensare che l’altra parte del mondo, che è la gran parte del mondo – l’Europa nella percentuale della popolazione globale del pianeta cala sempre di più: forse è un’astuzia della Provvidenza che guida nel segreto le cose -, ci osserva e scopre la vera natura di quella civilizzazione che volevamo rendere planetaria attraverso l’integrazione forzata: o con la forza bruta delle armi come i tempi dei conquistadores, o con l’altra forza, quella della necessità economica. Non ci dimentichiamo che l’Egitto è passato con le sue armi nella coalizione perché gli Stati Uniti hanno condonato un debito di sette miliardi di dollari. Io che vengo da una Chiesa dove la simonia è stata un terribile peccato ho il diritto di sospettare che la simonia sia anche un vizio laico. Questa potenza del dollaro è terribile. Io vedo che li sta naufragando una grande speranza. La universalità che noi avevamo sancito con le grandi conquiste si svela nella sua intima natura, quella di strumento di un dominio.
Mi ricollego alle osservazioni suggestive che faceva prima Morin. Nel Medio Oriente noi abbiamo come in uno specimen condensato, la compresenza di tutti i conflitti fondamentali. Per realizzare una civiltà veramente planetaria, senza egemonie coattive, noi dobbiamo risolvere quei conflitti non attraverso l’uso della forza ma cogliendo la verità parziale che in ogni situazione si nasconde. Nel Medio Oriente c’è lo specchio della verità spezzato. Ogni frammento di quello specchio va ricomposto con il resto, non basta assumerne uno solo. Questa è una necessità e anche una tribolazione politica di questo momento. Mi viene in mente quanto in anni lontani amava ripetere, con quell’aria un po’ da cristiano sognatore troppo amante del linguaggio simbolico Giorgio La Pira. “La pace nel mondo si risolve nel Mediterraneo e precisamente nel Medio Oriente e questa pace nel Medio Oriente passa attraverso la pacificazione fra le tre religioni che si riconoscono in Abramo: l’Islam, l’Ebraismo e il Cristianesimo. Fino a che – diceva lui – queste tre religioni non si riconoscono con fraternità e con rispetto, la pace nel Medio Oriente, anzi la pace nel mondo non ci sarà”. Gerusalemme è il simbolo delle città divise e quando io come cristiano ripenso alle grandi parole di Isaia su Gerusalemme sento un’intima angoscia e mi domando come si è verificato il contrario. A meno che non avvenga, come diceva Lutero, che Dio si riveli “sotto il segno contrario”. Gerusalemme è il segno della divisione del mondo. Lì le divisioni giungono all’estremo.
Voglio chiudere con questo riferimento religioso abbastanza provocatorio. Giorni fa mi sono trovato, per la lettura contemporanea di tre dati di cronaca, a fare una preghiera inconsueta. I dati di cronaca: Saddam che ha fatto mettere sulle bandiere il motto islamico: “Dio solo è grande”, Bush – c’era la sua fotografia – invitava gli americani a pregare Dio, i buoni pii ebrei erano al muro del pianto. Io ho pregato con Meister Eckhart: “O Dio liberami da Dio”. In realtà noi non possiamo superare le radici del fanatismo mortale se non annientandoci in quel Venerdi Santo in qui Colui e in nome di Dio fu ucciso ci ha rivelato che il nome di Dio è il  nome dell’uomo e che il luogo in cui si realizza il regno di Dio non è nel Tempio, nel pinnacolo nei labari ma nell’uomo vivente, anzi nell’uomo che più soffre. Dio è dalla parte debole. Dio è dalla parte della povera gente che da ricchezza a tutto il mondo senza nemmeno saperlo e resta nella miseria. Io passo attraverso questo riferimento che è insieme biblico cristiano e politico. Per ricomporre l’unità non c’è che da passare attraverso l’adozione delle vittime di queste contraddizioni. Qui c’è la grande intuizione lontana di Marx che vedeva questo elemento debole nel proletariato. Noi lo vediamo con una visione antropologica più profonda, nella condizione umana in cui si condensavo come un impluvio tutte le nequizie del sistema. Noi lo vediamo in coloro che soffrono, senza nemmeno averne coscienza, le pene immense di contraddizioni che vanno a scaricarsi, secondo una dinamica economica che noi conosciamo bene, la dove si trovano insieme la miseria estrema e la estrema ricchezza.

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