Approfondimento

Analfabetismo di ritorno in Italia

Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’ balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata”.

Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel ritrovamento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione dell’esercizio soprastante”.

[…] Ogni giorno, soprattutto da cent’anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d’amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell’antilingua. Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei il “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato […]. Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […] come se “fiasco”, “stufa”, “carbone” fossero parole oscene, come se “andare”, “trovare” “sapere” indicassero azioni turpi.

[…] Chi parla l’antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: “io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso”. […]Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa[1].

Così scriveva Italo Calvino nel 1965 in un articolo del «Giorno» segnalando la diffusione di un linguaggio tecnologico e burocratico che minacciava la bellezza dell’italiano semplice e discorsivo.
Che l’uso delle nuove tecnologie ne sia la causa o la conseguenze, a distanza di cinquant’anni, il problema principale della lingua italiana sta nella conoscenza molto vaga della grammatica e nella scarsa proprietà di linguaggio. Rispetto ai tempi di Calvino, la semplicità lessicale che caratterizza gran parte del linguaggio odierno sembra una scelta obbligata, dettata dalla povertà di contenuti e dal vuoto delle conoscenze perse negli anni.  Questo è uno degli aspetti del cosiddetto analfabetismo di ritorno.
Se da adulti non si esercitano le competenze acquisite a scuola, infatti, si regredisce di cinque anni rispetto ai livelli massimi di istruzione raggiunti. È la regola del meno cinque: «Nell’ultimo anno di liceo ci siamo inoltrati in argomenti non elementari di matematica ma, se non diventiamo bancari, geometri o ingegneri, la nostra matematica adulta si rattrappisce e, se va bene, torna ai livelli della terza media. Ciò avviene per ogni altro campo. Se non leggiamo libri o romanzi, di tutta la storia studiata restano brandelli sospesi nel vuoto: Pirro re dell’ Epiro, Stlicone, trattato di Campoformio» così Tullio De Mauro spiega il fenomeno. L’Italia detiene il primato negativo in Europa, seguita da Spagna e Francia.
«Termini come dirimere, duttile, faceto, proroga si trovano comunemente sui giornali, ma per molti italiani con pergamena appesa al muro sono parole opache» aggiunge Luca Serianni.
Secondo una ricerca del Centro Europeo dell’Educazione, ventuno laureati italiani su cento hanno una competenza minima di decifrazione di un testo. A Pisa è stato istituito un corso di grammatica italiana per la facoltà di giurisprudenza. «Nelle tesi o negli atti giuridici e amministrativi – afferma la docente Eleonora Sirsi – capita sempre più spesso di imbattersi in errori e approssimazioni che testimoniano un livello di competenza basso. E ogni anno che passa va peggio. Gli errori più comuni? Punteggiatura, frasi senza soggetto, uso dei tempi verbali. Abbiamo un’intera generazione di docenti con una preparazione di tipo letterario che non ha studiato la grammatica».
Nel gennaio del 2008, a Roma, al termine dell’ultimo dei concorsi per l’accesso alla magistratura parteciparono in 4000 per 380 posti. 3700 candidati presentarono prove irricevibili sul piano puramente linguistico, 58 posti rimasero non assegnati.
«Saper annotare correttamente parole sulla carta non è saper scrivere» spiega Gabriele Pallotti, docente  di Didattica delle Lingue moderne dell’Università di Modena. «Parlare e scrivere sono due diversi modi di pensare. Troppi ragazzi escono dall’università sapendo solo trascrivere la propria oralità, ovvero un flusso continuo di idee non ordinato e difficilmente comunicabile. Cioè restano mentalmente analfabeti».
Secondo i dati Istat, sette laureati su cento non leggono mai, altri sette leggono solo l’indispensabile per il lavoro.
Tuttavia anche la pratica della lettura rischia di trasformarsi in un fanatismo del tutto effimero se non sostenuta dalla capacità di distinguere e muoversi su più piani di scrittura: «Il disprezzo per la lingua italiana risiede anche in certi romanzi nuovi, pieni di parolacce e di inutili scorciatoie, e nel linguaggio sempre più sciatto dei giornali, dov’è quasi scomparsa la ricchezza della punteggiatura. Oggi s’impara poco anche leggendo. E si studia male», dichiara Tullio De Mauro.
Quali implicazioni comporta un fenomeno di questo tipo?
Secondo un’indagine promossa da Piaac-Ocse nel 2010, la fascia più vulnerabile è quella che include i disoccupati dai 26 ai 35 anni. Anche se questo fenomeno non sembra incidere troppo sull’occupabilità di un soggetto, l’inconsapevolezza condiziona le azioni e i comportamenti sul luogo di lavoro, danneggiando se stessi e per gli altri.
Il concetto di cultura della sicurezza insiste proprio sulla necessità di responsabilizzare i lavoratori,  educando alla sicurezza anche senza parlare direttamente di Leggi e decreti, puntando piuttosto sullo sviluppo del senso critico e della partecipazione attiva. Se non si è in grado di decodificare la realtà orientandosi in un orizzonte contemporaneo, viene meno la capacità di esercitare il proprio diritto alla cittadinanza.

[1] Italo Calvino – SAGGI 1945-1985 a cura di Mario Barenghi, Arnoldo Mondadori Editore.

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