Firenze, luglio 2005
Il contributo dell’architettura
Può l’edificio scolastico essere il frutto di un lavoro multidisciplinare? E quale contributo può dare in questo senso l’architettura bioecologica?
Abbiamo chiesto al Prof. Giovanni Galanti, docente di disegno industriale (Università di Firenze) e di tecniche di ripristino ambientale (Università di Ferrara), da anni impegnato sui temi dell’edilizia sostenibile e dell’edilizia scolastica.
Quale può essere secondo lei il senso del progetto di una scuola? Con quale atteggiamento la cultura progettuale dovrebbe accostarsi ad un tema così impegnativo come quello dell’edificio scolastico?
La domanda è difficile e impegnativa, ma a grandi linee è possibile dare alcune indicazioni significative.
Progettare una scuola è un processo lungo e complesso. Dal passato possiamo apprendere delle lezioni importanti, come quella dell’architetto Carmassi, che in Italia ha fatto una vera e propria teoria dell’edificio scolastico, sia insegnando a tener conto delle sue caratteristiche peculiari - legate allo speciale profilo di utenza cui è destinato - sia spingendo a valorizzarne la valenza simbolica, la vocazione di edificio pubblico destinato a durare nel tempo e ad assumere un ruolo nei confronti del contesto urbano.
Oppure potremmo citare un’altra esperienza importantissima, quella di Hertzberger, che ha mostrato come progettare in funzione della psicologia dell’utente, del bambino, del ragazzo.
Anche l’architetto è un insegnante, perché lascia sul territorio dei segni che devono durare nel tempo e da cui i giovani devono apprendere. E quindi l’architettura scolastica è un testo, è qualcosa che ti permette di apprendere la realtà. E la concezione degli spazi interna a questa architettura è fondamentale per capire cosa è il comfort, cosa è la funzionalità, tutti concetti che in architetture concettualmente povere portano ad esperienze povere: le anonime ‘scatolette’, che negli anni ’70 erano di cemento e oggi sono di vetro, ma restano comunque strutture dove si perde la complessità spaziale.
Ed è necessario anche l’ascolto delle esigenze pedagogiche.
Il pedagogista può dare delle indicazioni importantissime, per non uscire dal seminato, per sapere come articolare gli spazi in relazione ai metodi educativi. Ma l’architetto resta pur sempre un interprete e non un esecutore asettico di indicazioni che vengono dalla ricerca scientifica, anche se nella pratica molti progettisti ricevono indicazioni sull’edificio da costruire, si confrontano poi con la normativa, e pensano di avere esaurito tutta la raccolta di dati.
In altri casi invece, nelle migliori esperienze, il dialogo con pedagogisti e insegnanti prosegue durante tutta la progettazione. Non è sufficiente che l’architetto metta a disposizione le sue interpretazioni in fase preliminare e poi le metta a verifica: il progetto si realizza in un continuo interscambio di conoscenze. Queste esperienze mostrano come edificare una scuola sia un processo di confronto continuo, che può proseguire persino nella gestione e nella manutenzione successiva.
Purtroppo è difficile che questo accada ma, in ogni caso, dal progetto non deve scaturire un oggetto assoluto, chiuso, sui cui non si discute più.
Non credi che la progettazione di una scuola debba contenere delle zone franche, degli spazi da completare? Che debba evitare di proporsi come un progetto concluso, ma contenere dei vuoti?
Si, dipende da cosa si intende dire. L’edificio pubblico non è una scultura che rimane lì a simboleggiare un evento, ma una struttura dinamica che ha bisogno di mutare spesso nel tempo, che richiede continui aggiustamenti, continue modifiche in relazione a quello che si fa. Come la didattica, del resto, dove si realizzano continue verifiche, sperimentazioni e cambiamenti. In questo senso si può dire che la scuola è una struttura vivente. Quindi la cosa migliore sarebbe legare il progettista al continuo rinnovamento di quello che ha fatto.
Oggi bisogna evitare l’eccesso di personalizzazione - che porta alla perdita di flessibilità e alla incapacità di evolvere l’edificio scolastico, alla scultura - dall’altra l’eccesso di razionalizzazione, l’impoverimento funzionalista che conduce alla spersonalizzazione e quindi alla banalità dell’edificio, all’assenza di complessità.
Ci dovremmo muovere in modo da evitare questi due eccessi e riprendere le grandi lezioni del passato: quella di Hertzberger - l’edificio scolastico come educazione - e quella di Carmassi o De Carlo che fanno riferimento alla riscoperta delle tipologie fondamentali del passato e alla loro riconoscibilità in termini di edificio pubblico, di istituzione bella e non autoritaria.
Oggi si rincorrono le riviste di architettura e a volte non si riesce a distinguere un edificio scolastico dalla hall di ingresso di un albergo o di un aeroporto. A qualcuno piacerà ma io trovo che sia un divertimento abbastanza inutile. Non faranno storia questi edifici, assolutamente.
In questo ambito che ruolo ha la bioarchitettura? Rappresenta davvero una risposta in grado di cambiare la progettazione della scuola? Non è forse più costosa? Perché si dovrebbe spendere di più?
A mio parere oggi tutta l’edilizia pubblica dovrebbe essere in bioarchitettura. L’edificio pubblico dovrebbe essere sempre un modello, quando nella società nascono nuove esigenze, che oggi sono quelle del risparmio energetico, dell’utilizzazione di energie non convenzionali, della riduzione del prelievo di materie prime.
E la bioarchitettura oggi è un’esigenza indispensabile: non possiamo più pensare che gli edifici pubblici abbiano standard di consumi energetici come quelli degli anni settanta, persino quelli che rispettavano le leggi di allora, oggi sarebbero tutti da rivedere. Non tra qualche secolo, ma tra pochi anni, avremo da affrontare una crisi ecologica ed energetica molto stringente e impegnativa. Oggi è necessario parlare di edifici in grado di depurare e riutilizzare l’acqua di scarico, recuperare l’acqua piovana, autoprodursi l’energia con pannelli solari termici o pannelli fotovoltaici.
Costano di più, non c’è dubbio. Ma l’evoluzione della società va verso qualità sempre superiori, che richiedono un costo apparentemente superiore rispetto ad una situazione precedente. Se dovessimo costruire con gli standard di sicurezza o con le normative antisismiche degli anni ‘60 certo spenderemmo meno, ma non avremmo guadagnato nulla nei termini di quella qualità che oggi riteniamo prioritaria.
Ciò che si può garantire però, in cambio di un maggiore investimento in qualità, è un risparmio nel futuro, tale da permettere di recuperare anche tutto il costo supplementare. È un investimento che può avere tempi di ritorno di oltre 10 anni, ma l’edificio amministrato dalla collettività può e deve permettersi queste strategie, se vengono elaborate all’interno di una politica di lungimiranza.
Non possiamo quindi confrontare edifici convenzionali, energivori, con architetture evolute che tentano di rispondere positivamente alla crisi ambientale, semmai dovremmo mettere a confronto le varie tipologie di edificio ecologico, alcune più costose, altre meno.
Tra tutte le strategie di risparmio energetico, infatti, esistono anche quelle low cost, cioè a basso costo. Edifici come quelli del Centro di educazione ambientale Panta rei (vedi la galleria di www.indire.it/aesse n.d.r.), realizzati cioè con tecniche addirittura antichissime, rinnovate oggi, potrebbero costituire un esempio non solo per l’edilizia rurale, ma anche per contesti residenziali urbani.
Molte di queste strategie, già sperimentate molto bene dalla Germania contemporanea, permettono infatti di ottenere un’edilizia a basso costo che pur consentendo delle prestazioni straordinarie non impone i costi aggiuntivi legati all’impiego di nuovi materiali e impianti.
Non solo. Il risparmio energetico, sopratutto per le nuove costruzioni, inizia con le cosiddette tecniche passive, che sfruttando particolari accorgimenti consentono forti risparmi con costi aggiuntivi minimi o assenti. In questo modo si ottengono edifici che non producono energia ma la risparmiano. Ad esempio un aumento di isolamento termico, oltre quanto prescritto dalle normative, comporterebbe dei risparmi energetici in grado di ammortizzare l’aggravio di costo nel giro di 2 o 3 anni, anche mantenendo gli stessi impianti.
Si può fare tanto e sopratutto bisogna avere le idee chiare su cosa fare. Quando le risorse sono limitate conviene concentrarsi sulle tecnologie a basso costo e sulla passività dell’edificio. Laddove invece ci sono delle risorse più abbondanti è possibile pensare per il futuro e quindi ad un edificio che sia in grado di essere abbastanza autonomo dalle reti energetiche, della rete idrica, fattore di cui nel prossimo futuro dovremo sicuramente tenere conto. Altrimenti tra qualche anno saremo costretti a riconvertire molti di questi edifici.
E tutta l’edilizia pubblica, ripeto, deve essere l’apripista di queste esperienze, come lo è stato sempre nella storia dell’architettura. L’edificio collettivo, dalla chiesa, alla basilica, al foro romano, era pur sempre un modello per tutta l’architettura più quotidiana. La scuola dovrebbe recuperare questa significatività di modello architettonico. E gli insegnanti dovrebbero essere consapevoli che non stanno in un edificio qualunque, ma in un edificio che può diventare un modello.
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